Antonella Veltri è la presidente di D.i.Re – Donne in rete, l’associazione che raccoglie 84 organizzazioni di donne che gestiscono 111 centri antiviolenza in 19 regioni del Paese. Nell’intervista rilasciata a LumsaNews approfondisce le dinamiche interne a un rapporto basato sul controllo finanziario dell’uomo sulla donna e analizza le criticità del reddito di libertà.
Qual è la posizione della vostra associazione rispetto all’introduzione del reddito di libertà per le donne vittime di violenza economica?
” Si tratta di una misura assolutamente necessaria, considerate le difficoltà delle donne quando escono da un percorso di supporto. Ma è necessario diventi strutturata“.
Avete pensato a un coordinamento con i centri antiviolenza per il reddito di libertà?
“Questo tipo di coordinamento non serve in realtà, perché il contributo va richiesto individualmente, e se è vero che la donna deve essere seguita da un centro antiviolenza, per farne richiesta deve comunque rivolgersi ai servizi sociali del suo territorio di residenza. E questo è già problematico perché non tutte le donne hanno intenzione di fare un passo del genere. Nei centri antiviolenza della rete D.i.Re è garantito l’anonimato, se il centro antiviolenza presentasse direttamente la domanda all’Inps la riservatezza sul percorso resterebbe garantita. Mentre con il passaggio attraverso i servizi sociali nessuno assicura che le informazioni non trapelino all’esterno, aumentando così i rischi per chi è in percorsi protetti”.
Quante sono le donne vittime di violenza economica in Italia?
“ Il 33,4 per cento delle donne da noi seguite nel 2020 ha subito violenza economica, che spesso si accompagna ad altre forme di violenza, in particolare quella psicologica, riportata dal 77,3% delle donne, o la violenza fisica, subita dal 60% di loro”.
Perché anche le donne stesse hanno più difficoltà a individuare tale abuso?
“La violenza economica può manifestarsi in maniera subdola, per questo è più difficile da riconoscere nell’immediato: il partner obbliga la donna a lasciare il lavoro con la scusa della maternità, oppure si fa consegnare lo stipendio o l’accesso al conto corrente e ai suoi beni con la scusa di avere maggiori competenze nella gestione dei soldi. Piano piano si crea una situazione di dipendenza che incrementa il controllo dell’uomo sulla donna, la sua imposizione di regole, obblighi, limitazioni, e le reazioni violente se la donna non le rispetta. E questa situazione di dipendenza rende ancora più difficile liberarsi dalla violenza”.
Come vi muovete con le donne che si rivolgono a voi perché non indipendenti sul piano economico?
“Il supporto dei centri antiviolenza è sempre gratuito, quindi una donna non deve avere un reddito per poter essere supportata da un centro antiviolenza. Viceversa, il percorso di fuoriuscita dalla violenza – così come realizzato nei centri antiviolenza della rete D.i.Re e come previsto dalla Convenzione di Istanbul – è un percorso che accompagna la donna verso la propria autonomia”.
Quale dovrebbe essere, se serve, l’intervento da fare oltre a questo sussidio?
“Il reddito di libertà è un sussidio: cruciale in alcuni momenti e nei territori dove il mercato del lavoro per le donne offre pochissime opportunità. Questa misura dovrebbe però essere strutturale, fare parte cioè del welfare, e non dovrebbe gravare su una parte dei fondi previsti nel Piano nazionale antiviolenza come è adesso, che necessariamente, essendo limitati, riducono enormemente il numero delle beneficiarie. Questa misura andrebbe accompagnata con misure per favorire l’inserimento lavorativo, per esempio attraverso l’introduzione di sgravi fiscali per le imprese che assumono donne in uscita da un percorso di supporto nei centri antiviolenza e l’accesso facilitato a corsi di formazione e riqualificazione professionale”.