Costanza Filippone è un’educatrice sociale e grazie ad un’esperienza di tirocinio all’interno di una comunità mamma-bambino in Sicilia, ha avuto la possibilità di stare a contatto con donne vittime di sfruttamento sessuale.
Dove si è svolta la tua esperienza?
“La cooperativa per cui ho lavorato in Sicilia possiede diverse strutture, tutte adibite a madri gestanti o con figli minori a carico e, in particolare, è rivolta a donne e minori che hanno subito violenze ed hanno bisogno di un luogo sicuro per allontanarsi da situazioni disfunzionali, con il fine di intraprendere un percorso su di sé e concentrarsi anche sulle proprie competenze genitoriali. Nello specifico, la struttura in cui sono stata, ospitava tre mamme provenienti dalla Nigeria, tutte vittime di tratta ed alcune vittime di sfruttamento sessuale. Anche se non ho potuto parlare direttamente con loro delle loro storie passate, perché erano già ospiti della comunità da anni ed erano ad un punto del loro percorso in cui si cercava di far guardare loro al futuro e non al passato, ho avuto comunque la possibilità di parlare con gli altri educatori e di leggere i diari in cui veniva raccontata la storia di ogni utente. Una di quelle che mi ha colpito di più è stata quella di una ragazza della mia età, ai tempi 20 anni, che era partita dalla Nigeria fino ad arrivare in Libia, la zona più vicina per poi raggiungere la Sicilia, e proprio lì è stata catturata e costretta a prostituirsi, concedendo il proprio corpo a chi, appunto, la teneva lì. In quella situazione – allora aveva 17 anni – è rimasta incinta”.
Un viaggio che parte e non finisce con l’arrivo in Italia…
“Una volta che le donne vengono “ingaggiate”, lo sfruttamento parte durante il viaggio stesso per raggiungere l’Italia”.
In cosa consisteva il lavoro all’interno della comunità?
“L’obiettivo era in primis regolarizzare i documenti, in secondo luogo offrire le opportunità per cui loro erano arrivate in Italia. Nel periodo in cui io ero in struttura, la ragazza sopra citata stava svolgendo un tirocinio retribuito, stava studiando per prendere la patente e stava cercando casa per trasferirsi con suo figlio, che aveva poco più di tre anni. L’obiettivo ultimo di queste strutture è quindi quello di accompagnare queste donne verso la metabolizzazione dei traumi e, come ultimo step, far raggiungere loro la totale autonomia, in modo tale che possano ricominciare da capo, come avevano sperato e progettato già quando avevano lasciato il paese d’origine”.
Come erano le donne del centro?
“In generale, i tratti comuni che ho riscontrato nelle donne che abitavano all’interno della struttura, sono diversi: una forte rabbia; diffidenza; scatti d’ira incontrollati; impulsività, ma fra di loro c’era anche un forte senso di solidarietà e coesione, come se fossero una famiglia a tutti gli effetti: le donne si occupavano reciprocamente dei figli di tutte le altre, nel momento in cui qualcuna aveva un impegno ed era fuori dalla struttura. Purtroppo, quello che spesso accade, è che queste persone rimangano comunque fortemente stigmatizzate per la loro situazione pregressa, anche dai loro stessi partner”.
Ad esempio?
“All’interno della struttura una delle mamme è rimasta incinta, infatti aveva un compagno anche lui ospite in un’altra comunità, con cui poteva trascorrere dei giorni prestabiliti, solitamente il fine settimana, all’interno di un appartamento che avevano preso in affitto (solitamente questa possibilità si ha quando già si è a fine percorso). Quando il compagno ha scoperto la gravidanza ha iniziato ad insultarla e a dire che lei era andata a letto con qualche vecchio cliente e che il figlio, quindi, non era suo, costringendola ad abortire. Il nostro ruolo, in quel caso, è stato quello di mediare il più possibile all’interno della loro relazione, cercando di comprendere in primis se questa donna volesse tenere o meno il bambino. Lei voleva tenere il bambino, ma allo stesso tempo sapeva che se l’avesse tenuto avrebbe perso il suo compagno. Un giorno, incinta di pochi mesi, l’abbiamo scoperta mentre beveva del disinfettante per indursi un aborto. Fortunatamente ce ne siamo accorte e l’abbiamo portata in ospedale. Queste donne non vengono stigmatizzate solo da chi è “lontano” da loro, ma anche e soprattutto dagli affetti che hanno vicino, motivo per cui molto spesso la ragazza tiene la famiglia (che rimane nel territorio d’origine) all’oscuro della vita che in Europa, inventandosi parecchie bugie come finti lavori o finti stili di vita”.
Uno stigma impresso per sempre sulla loro pelle…
“C’è un libro molto bello che si chiama “Il paese delle badanti” che parla di come le donne mentono alle proprie famiglie sulla vita che conducono e di come, quando ritornano nei propri contesti d’origine per far visita ai familiari, il loro primo pensiero sia quello di sistemarsi: vestirsi in un certo modo, truccarsi, farsi i capelli, di comprare regali per poter mostrare lo stile di vita fittizio che portano avanti. Tutto ciò anche per non disilludere chi rimane a casa dal sogno italiano ed europeo, per non fare stare in pensiero le proprie famiglie e per non provare ancora di più un senso di profonda vergogna. Facile immaginare quanto, tutte queste cose, vadano a colpire profondamente il benessere psicofisico di queste persone”.
Da chi sono costrette queste donne?
“I capi principali delle organizzazioni criminali nigeriane responsabili dello sfruttamento sessuale sono delle donne che vengono chiamate maman. Queste donne a loro volta reclutano degli sponsors, che solitamente sono delle ex prostitute, che non fanno altro che convincere le ragazze a partire dalla Nigeria verso l’Europa con l’inganno, affermando loro come in questi paesi ci siano più possibilità lavorative o di studio. La cosa peggiore è che spesso questi sponsor fanno parte della famiglia della ragazza o sono amici di famiglia. Di solito le donne che partono hanno un forte senso di responsabilità nei confronti della famiglia e quindi si sentono in dovere di assicurare alla loro famiglia un futuro migliore o in altri casi sono semplicemente donne che vogliono cercare fortuna. Una volta che arrivano in Italia o in Europa però sono vincolate strettamente a queste maman, innanzitutto perché sono debitrici loro per il viaggio”.
Costanza Filippone racconta di una pratica poco conosciuta in Occidente ma molto vincolante per le ragazze costrette a partire: “Spesso prima di partire vengono sottoposte a dei rituali Voodoo in cui sono presenti anche i familiari. Questi rituali le vincolano alla persona che le sta aiutando e interrompere il legame significherebbe appunto offendere la madame e nei casi più drastici andare incontro alla morte. Quindi accade molto spesso che queste donne evitano di chiedere aiuto perché hanno paura di incappare in conseguenze non solo economiche ma anche religiose e culturali”.
Cosa sai dirmi sulla tratta di esseri umani?
“Il traffico di esseri umani è una delle attività più redditizie di queste organizzazioni dopo il traffico di droghe. Questa pratica consiste nel reclutamento in modo coercitivo, che prevede successivamente lo sfruttamento delle persone attraverso la prostituzione, il lavoro forzato, la schiavitù o il traffico di organi all’interno del mercato nero. Grazie alla mia attività di tirocinio sono venuta in contatto con uno dei mondi più collegati alla tratta di esseri umani e allo sfruttamento delle persone ovvero lo sfruttamento sessuale. I numeri riportati dalle organizzazioni internazionali per l’emigrazione parlano di 26 mila donne circa o in generale di persone reclutate appunto per lo sfruttamento sessuale, mentre per quanto riguarda i clienti sono circa 9 milioni. Ovviamente più aumenta la domanda più le organizzazioni criminali cercano di dare una risposta sufficiente, mobilitando più persone sfruttate”.
C’è un legame tra mafie straniere e locali?
“Le organizzazioni criminali dell’Italia non lavorano da sole. Vi è una cooperazione internazionale fra organizzazioni del luogo e d’approdo e organizzazioni criminali del luogo d’origine molto famosa. È la mafia nigeriana che solitamente si occupa di reclutare appunto le donne o comunque tutte quelle persone che poi tramite i flussi migratori arrivano in Italia e vengono utilizzate come manodopera”.