Ci si aspettava una fiammata di Jeb Bush, e invece ieri ha brillato l’astro di Carly Fiorina, l’unica donna candidata alla presidenza per il partito repubblicano. Nella californiana Ronald Reagan Library, gli 11 principali aspiranti alla nomination repubblicana si sono sfidati in piedi, di fronte all’ex Air Force One usato dal 40° presidente degli Stati Uniti, icona insuperata del credo conservatore negli anni Ottanta.
Tutti contro Trump. Ripetendo lo schema del dibattito d’agosto, è apparsa fin dall’inizio la differenza tra il magnate Donald Trump, candidato estraneo al mondo della politica eppure – e forse proprio per questo – in testa da mesi in tutti i sondaggi, e i suoi sfidanti, che sembravano quasi coalizzati contro di lui. Questo potrebbe anticipare quello che accadrà a partire da gennaio, quando le primarie costringeranno inesorabilmente al ritiro i candidati con minore consenso, molti dei quali verosimilmente daranno indicazione di voto per chiunque sembrerà in grado di fermare il ciclone Trump.
La serata della Fiorina. Più che la sua ben nota spregiudicatezza, la vera forza del costruttore newyorkese sembra essere però la debolezza e l’eterogeneità dei suoi avversari, che nei sondaggi si contendono le posizioni di rincalzo senza dare l’impressione di poter essere davvero vincenti. Ieri sugli scudi è stata l’ex amministratore delegato di Hewlett-Packard, Carly Fiorina, l’unica a riuscire a tenere testa con veemenza a Trump, da lei definito un «intrattenitore». La Fiorina ha contrattaccato con eleganza sulle battute sessiste pronunciate dal magnate nelle scorse settimane («tutte le donne hanno ascoltato molto chiaramente cosa ha detto») e ha difeso energicamente il suo lavoro alla Hp – dove ha messo in atto un pesante piano di ristrutturazione – giustificandosi con i «tempi difficili» che ha dovuto affrontare e con il suo tentativo di «cambiare lo status quo», fermato proprio da chi l’ha licenziata. «Carly Fiorina è stata uno dei peggiori ad della storia americana – ha però replicato Trump, citando il direttore della Yale Business School – Non le affiderei nessuna delle mie società».
Deludono Bush e Rubio. Sullo sfondo tutti gli altri candidati, che non sono mai riusciti a rubare la scena. Jeb Bush si è visto quasi solo per difendere la presidenza del fratello George jr.: («Si può dire solo una cosa su di lui: ci ha resi più sicuri») e per ammettere di aver fumato marijuana in gioventù: «Quarant’anni fa l’ho fatto, come tante altre persone che forse non lo direbbero davanti a 25 milioni di persone. Mia madre non sarà contenta di saperlo». Ancora più deludenti il chirurgo in pensione Ben Carson, semplicemente non pervenuto; l’ex governatore dell’Arkansas Mike Huckabee (unica “perla” la sua convinzione che «gli iraniani tratteranno l’accordo sul nucleare come carta igienica»); e soprattutto il giovane e carismatico senatore della Florida Marco Rubio, di origini cubane, preparato in politica estera ma apparso in forte difficoltà sul tema, a lui caro, dell’immigrazione.
Alessandro Testa