A causa dello “shutdown”, la mancata approvazione di un piano di spesa pubblica, che ha lasciato senza stipendio almeno 800mila dipendenti statali e ha costretto a chiudere parchi e monumenti pubblici (compresa la Statua della Libertà), il presidente degli USA Barack Obama annulla la sua prossima visita in Malesia, prevista per l’11 ottobre. A rischio la sua partecipazione al vertice dell’Apec, la Cooperazione Economica Asiatico-Pacifica. Obama sarà costretto a rimanere a Washington per tentare di convincere i repubblicani, da lui definiti irresponsabili, ad accettare un accordo politico sul bilancio. Ma il GOP, ostaggio delle promesse elettorali dell’ala estremista del Tea Party, non sarebbe ancora disposto a transigere sulla riforma sanitaria, fortemente voluta dal presidente, varata nel 2010, approvata nel 2012 ed entrata in vigore proprio ieri.
Ripercussioni sull’economia. Il Congresso degli Usa ha una maggioranza repubblicana, che spesso è andata contro le scelte e gli orientamenti del presidente democratico. Quello di ieri è solo l’ultimo, violento, strappo. Ma si tratta di un’empasse che potrebbe costare caro all’economia statunitense: secondo uno studio di Goldman Sachs la cifra si aggira attorno agli 8 miliardi di dollari alla settimana. Non è la prima volta che si arriva ad uno stallo così, dal 1977 sono state ben 13 le crisi politiche che hanno portato ad uno shutdown. L’ultima fra il dicembre del 1995 e il gennaio del 1996, presidente (democratico) Bill Clinton, che doveva fare i conti con una camera di opposto orientamento. Allora però l’economia era in crescita: il Dow Jones del periodo segnò un incremento del 2 %, mentre gli interessi sui titoli decennali statunitensi scesero dal 7.75 % al 5.65 %.
Oggi la situazione è diversa: si esce da anni di crisi economica, e gli effetti della recessione cominciata nel 2009 non sono del tutto svaniti. I mercati sono ancora instabili, e si temeva la loro reazione. Al momento, non sembrano esserci ripercussioni significative. Secondo l’agenzia di rating Moody’s, però, uno shutdown di due settimane porterebbe ad un freno sul Pil dello 0,3 %, mentre se il blocco si prolungasse per un mese la crescita annua diminuirebbe dell’1,4 %.
Un’intesa politica. Per questo Obama è stato così risoluto con i repubblicani, e nei discorsi che ha rivolto alla nazione ha parlato di crisi “evitabile” e di “crociata ideologica” da parte del partito di destra. La moneta di scambio pretesa dal GOP era il rinvio all’anno prossimo della riforma sanitaria. L’Obamacare, come è stata ribattezzata, amplia la copertura dell’assicurazione ospedaliera ad alcune categorie specifiche e offre più garanzie per lavoratori over 65 e malati cronici. Un successo per le fasce più disagiate, ma una spesa in più per lo stato. La riforma sanitaria, comunque, è stata finanziata con l’Affordable Care Act, una legge distinta dal rifinanziamento del budget annuale, su cui si è invece concentrata la battaglia politica. Eppure l’obiettivo del Tea Party rimane ritardare l’implementazione dell’Obamacare.
Ora il presidente, politicamente indebolito dalla difficile gestione della crisi siriana, dovrà sfoderare le proprie capacità da mediatore, per ottenere nel più breve tempo possibile un’intesa. La scadenza è la metà di ottobre, più precisamente il 17, quando il parlamento dovrà innalzare il limite del debito Usa, ora fermo a 16,7 miliardi di dollari. Se entro quella data non si arriverà ad una soluzione, il rischio è il default degli Stati Uniti. Una possibilità, evidentemente, molto remota. Molto più concreto il pericolo di una reazione negativa dei mercati nei prossimi giorni.
Domenico Mussolino