Fra le vittime del terrorismo di estrema destra, all’interno del periodo della Strategia della tensione (dal 1969 al 1980), ci sono politici, giornalisti, autorità. Ma anche persone comuni: 144 morti e centinaia di feriti, fra piazza Fontana, Gioia Tauro, treno Italicus, piazza della Loggia, stazione di Bologna e Strage di Natale, dove intervenne anche la componente mafiosa. Gente innocente che, suo malgrado e per semplici coincidenze, è rimasta vittima dello stragismo. Questa è la loro storia.
Gli agricoltori di piazza Fontana
“La Banca Nazionale dell’Agricoltura era piena di agricoltori della provincia lì per lavorare. Gente qualsiasi, insomma. Poteva esserci chiunque”, spiega a Lumsanews Carlo Arnoldi, figlio di Giovanni – scomparso a Piazza Fontana, a Milano, il 12 dicembre 1969, all’età di 42 anni – e presidente dell’Associazione Piazza Fontana. “Mio padre era agricoltore, allevatore e mediatore commerciale: ogni venerdì si recava lì. E pensare che quel giorno aveva un po’ di febbre, non voleva andare”. Oggi Carlo ha 65 anni, ma all’epoca era appena quindicenne: “Ricordo il medico di famiglia che suona al campanello, entra e dice che era stato informato che papà era ‘gravemente ferito’. Nel frattempo, un zio che viveva a Milano era andato a cercarlo in ospedale: a fatica riconobbe cadavere, e scoprì la verità. La sera andammo lì, fra la nebbia e le lacrime. Mamma era disperata, ma è stata l’ultima volta che l’ho vista piangere: dopo i funerali si è rimboccata le maniche per crescere me e mia sorella”. Appunto, i funerali: “Un silenzio irreale, in una piazza Duomo grigia e ghermita. In quel cordoglio collettivo, però, l’Italia capì già che il terrorismo non avrebbe vinto”.
Fra le 17 vittime della bomba, c’era anche Pietro Dendena, mediatore di 45 anni lì per lavoro. Il figlio Paolo, oggi sessantenne, allora ne aveva solo dieci, e viveva a Lodi. “Era la vigilia di Santa Lucia, che nella nostra città secondo tradizione porta i doni ai bambini”, ricorda. “Il mio ‘dono’ fu ritrovarmi orfano di padre”. E non solo: “Io ero piccolo e la consapevolezza della tragedia è cresciuta poco alla volta. Ma di quei momenti ricordo soprattutto mia mamma che diceva: ‘Dobbiamo sapere a ogni costo chi ha messo le bombe nella banca’. Per questo andammo a tutti i processi”.
Le operazioni giudiziarie sono andate avanti fino al 2005. “Io e mia sorella (Francesca Dendena, scomparsa nel 2010 ndr) non abbiamo mai smesso di credere nella giustizia”, precisa Paolo. “Non volevamo vendetta, solo verità. Ma vivemmo i processi come un calvario, fra depistaggi, spostamenti e assoluzioni”, ricorda oggi Arnoldi.
La “società civile” di piazza della Loggia
Pochi mesi dopo piazza Fontana, lo stragismo nero tornò a colpire: a Gioia Tauro, il 22 luglio del 1970, un’esplosione fece deragliare un treno diretto verso Torino, causando la morte di sei passeggeri. Un altro convoglio, l’Italicus, fu colpito da un ordigno nella notte fra il 3 e 4 agosto del 1974 nella provincia di Bologna. In quell’occasione, si contarono 12 morti e 48 feriti.
Poco prima, il 28 maggio dello stesso anno, c’era stata un’altra strage rimasta alla storia: quella di piazza della Loggia, a Brescia. Una bomba di Ordine Nuovo, durante un corteo contro il terrorismo neofascista, uccise otto manifestanti e ne ferì 102. Di quel giorno, è rimasta la foto di Manlio Milani vicino alla moglie Livia Bottardi, un’insegnante di lettere, ferita a morte. “Sono sopravvissuto per caso: dei conoscenti mi fermarono a metri dall’ordigno per chiedermi un’informazione, ed evitai l’esplosione”, racconta lui, oggi ottantunenne. “Fu una tragedia privata, ovviamente, perché persi moglie e amici che erano lì con me. Ma quel giorno a manifestare rappresentavamo la società civile, in quello che era uno sciopero generale antifascista, con tutti i partiti a eccezione del MSI. Per questo la ritengo anche una tragedia pubblica: furono colpite le istituzioni, la democrazia”. Da allora per Milani “testimoniare è una necessità. Per difendere la nostra libertà, che qualcuno voleva mettere a repentaglio”.
I turisti alla stazione di Bologna
Ma l’attentato terroristico più sanguinoso rimane quello della stazione di Bologna, avvenuto il 2 agosto 1980. In quel caso, l’esplosione di una bomba colpì una sala d’aspetto piena di turisti e bolognesi che andavano in vacanza, con 80 morti e 200 feriti. “In quelle ore ero in treno, di ritorno dalla Svizzera con mia moglie. Alla stazione di Bologna ci aspettavano i miei suoceri, mio figlio e mia madre”, ricorda a Lumsanews Paolo Bolognesi, settantacinquenne ex deputato e presidente dell’Associazione per le vittime della Strage alla stazione di Bologna. “Saremmo dovuti andare in vacanza in montagna. Ma prima che arrivassimo ci fu l’esplosione: la madre di mia moglie morì, gli altri rimasero feriti”. E, quasi quarant’anni dopo, anche la sua mente è ancora divisa fra la dimensione del tribunale e quella intima: “È stato un evento che ha sconvolto la nostra famiglia, è chiaro. Ma non abbiamo mai accantonato l’impegno per ottenere giustizia, che va avanti ancora oggi. In questo senso, associarci ci ha aiutati tantissimo: come persone, ma anche come parte giuridica”.
Resistere, ricordare, raccontare
A oggi, Dendena e Arnoldi dicono di reputarsi, più che “vittime”, dei “testimoni”: sono entrambi in campo con l’Associazione Piazza Fontana per “sollecitare la memoria attraverso la nostra esperienza diretta”, spiega lo stesso Arnoldi. “La nostra – aggiunge Paolo – è la testimonianza che deriva dal dolore. E dopo cinquanta anni è come viverla ogni giorno”. Adesso il vicepresidente dell’Associazione è Matteo, nipote di Pietro. Ha 31 anni e rappresenta la “terza generazione”. “Sono cresciuto in una famiglia unita e consapevole”, ci dice. “Purtroppo a scuola non si studiano gli Anni di piombo. Ma le nostre testimonianze arrivano al cuore dei ragazzi”. E, in ogni caso, “nessun famigliare delle vittime ha cercato visibilità mediatica: tutti avremmo preferito non esserne mai coinvolti”.
Milani ha invece fondato l’Associazione Casa della memoria, insieme alle istituzioni di Brescia: “Associarci è servito a chiedere verità e a non sentirci isolati nel nostro dramma. Adesso lavoriamo per ricordare e tenere unità la città di fronte a quello che fu un attacco alla democrazia”. Ricordare, quindi, è la parola chiave. “Tenere viva la memoria è essenziale”, conclude Bolognesi. “Senza memoria, tutto passerà come se non fosse successo nulla. Senza memoria, soprattutto, viene meno anche il concetto stesso di giustizia”.