Jonah Lomu era velocissimo, come il tempo che segna già un anno dalla sua morte. Il suo amato rugby, invece, è uno sport imprevedibile come l’arresto cardiaco che gli tolse la vita all’età di 40 anni. Era alto quasi due metri e pesava più di 120 chili: una stazza fisica tradita da molteplici problemi di salute. Lomu aveva però imparato a conviverci, tanto che il trapianto al rene all’inizio della sua carriera non soffocò la sua passione. Dalla Coppa del mondo del 1995 in Sudafrica fino a quella in Gran Bretagna pochi mesi prima di morire, il segno lasciato nella storia del rugby professionistico è indelebile.
Neozelandese, ma originario di Tonga, ha quasi sempre ricoperto il ruolo di tre quarti ala. Una vita da record che inizia quando, appena diciannovenne, diviene titolare nazionale della Nuova Zelanda. L’interruzione per problemi nefrosici fra il 1996 e 1997 non gli impedisce di partecipare alla Coppa del mondo del 1999. Tre mogli e due figli, ma anche amicizie speciali come quella con lo speaker radiofonico Grant Kereama, che gli dona il rene nel 2004. La continua lotta fra talento e problemi medici lo costringe a smettere ufficialmente nel 2010, senza le dovute ricompense. La sua bravura e la sua grinta lo incoronano però fra le icone più amate degli All Blacks fra gli anni Novanta e il Duemila.
Dal 10 novembre, tutta la sua vita è in libreria, raccontata dalla penna di Marco Pastonesi nel suo libro “L’Uragano nero. Jonah Lomu, vita morte e mete di un All Black”. Il giornalista (ed ex rugbista) lo definisce «un carro armato, veloce come una Ferrari», esaltando anche il suo spirito di condivisione, in uno sport tanto animalesco quanto umano. Per i suoi meriti e valori apparve nell’International Rugby Hall of Fame nel 2007 e ricevette l’onorificenza dell’Ordine al merito neozelandese quattro anni più tardi.