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Trattativa Stato-mafia, Napolitano dovrà testimoniare. La corte andrà al Quirinale

di Alessandro Testa26 Settembre 2014
26 Settembre 2014

Giorgio-Napolitano (Borsellino-Salvatore.-Foto)Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dovrà testimoniare nel processo di Palermo sulla presunta trattativa tra Istituzioni e mafia che nel 1992-1993 avrebbe fermato la strategia stragista di Cosa Nostra. Lo ha deciso ieri la Corte d’Assise del capoluogo siciliano, che non ha accettato la lettera con cui nell’ottobre del 2013 Napolitano – che all’epoca dei fatti contestati era presidente della Camera – aveva anticipato di non avere granché da riferire. «Prendo atto dell’odierna ordinanza – ha prontamente commentato il Capo dello Stato – Non ho alcuna difficoltà a rendere al più presto testimonianza, secondo modalità da definire, sulle circostanze oggetto del capitolo di prova ammesso».

«Non decide il testimone». Con la decisione di ieri i magistrati palermitani hanno ribadito infatti il principio della libertà degli imputati di citare (e di ascoltare di persona durante il dibattimento) tutti i testimoni che ritengono utili per la propria difesa, e quello secondo cui “non è la persona informata sui fatti a stabilire la rilevanza o meno nel processo delle informazioni eventualmente in suo possesso, ma il collegio giudicante”. In base all’articolo 205 del codice di procedura penale, il Presidente della Repubblica non andrà a Palermo, ma sarà ascoltato «nella sede in cui presta le proprie funzioni», ovverosia il palazzo del Quirinale. All’udienza, che sarà a porte chiuse, parteciperanno soltanto la corte, i pm e gli avvocati difensori; esclusa invece – anche se non ci sono precedenti specifici e l’articolo 502 del codice potrebbe in teoria consentirla – la presenza, nemmeno in videoconferenza, degli imputati: l’ex ministro e vicepresidente del Consiglio superiore della Magistratura Nicola Mancino, l’ex senatore berlusconiano (condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa) Marcello Dell’Utri, alcuni alti ufficiali dei Carabinieri e boss mafiosi come Riina, Provenzano e Bagarella.

Il caso D’Ambrosio. Il Presidente Napolitano sarà chiamato a riferire sull’accorata lettera di dimissioni che gli scrisse nel 2012 il suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio – poi morto prematuramente d’infarto poche settimane dopo – già collega di Giovanni Falcone ed estensore, dopo il suo assassinio, di parte della normativa antimafia varata d’urgenza. D’Ambrosio si diceva amareggiato e certo che i continui attacchi politici e mediatici che riceveva in quei giorni fossero in realtà strumentali e condotti da qualcuno che «sta cercando di spostare sulla Sua figura e sul Suo altissimo ruolo istituzionale condotte che soltanto a me sono invece riferibili», avanzando però allo stesso tempo il «vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi», definiti in un altro passaggio come il «più turpe affare di Stato della seconda Repubblica: le trattative fra uomini delle istituzioni e uomini della mafia».

De Mita. La decisione del Tribunale è stata resa nota al termine dell’udienza in cui è stato ascoltato l’ex presidente del Consiglio ed ex segretario della Democrazia cristiana Ciriaco De Mita (oggi ultraottantenne e sindaco della sua Nusco, in Campania), in merito allo spostamento dagli Interni agli Esteri dell’ex ministro dc Vincenzo Scotti – uno dei punti chiave della presunta trattativa – durante il passaggio, nel 1992, dal settimo governo Andreotti al primo governo Amato. De Mita, polemizzando spesso con il pubblico ministero Nino Di Matteo, ha minimizzato l’accaduto, sostenendo che la richiesta di Scotti di rimanere agli Interni non fosse motivata dalla volontà di proseguire nel suo impegno antimafia ma da altri motivi, e che il suo spostamento non fu una rimozione, ma una promozione. In attesa di calendarizzare l’audizione del Presidente Napolitano, il processo riprenderà il 2 ottobre, con la testimonianza dell’ex mafioso, oggi collaboratore di giustizia, Vincenzo Sinacori.

Il nuovo CSM. L’ordinanza della Corte d’Assise di Palermo è stata resa nota poche ore prima della prima riunione, al Quirinale, del nuovo Consiglio superiore della Magistratura, durante la quale il Presidente Napolitano ha lodato le scelte dei padri costituenti che vollero garantire l’autogoverno dei magistrati, ma anche criticato il limitatissimo uso dei trasferimenti d’ufficio – auspicando che venga invece utilizzato ogni volta che contrasti personali bloccano di fatto l’azione giudiziaria – e l’abnorme cronica lentezza del CSM, «troppo spesso frenato da logiche spartitorie e poco attento alla parità di genere» nel sostituire le cariche di vertice che periodicamente rimangono vacanti in Procure e Tribunali di ogni grado: «La riforma della giustizia non è più rinviabile», ha chiosato il Capo dello Stato.

Alessandro Testa

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