Era il 13 giugno 1971 quando i Pentagon Papers, 7.000 pagine di documenti top-secret del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, vennero allo scoperto grazie prima al New York Times e poi al Washington Post. Il dossier, uno studio approfondito sulle strategie e i rapporti del governo federale con il Vietnam nel periodo 1945-67, fu voluto dall’economista Robert McNamara, ma copiato e venduto ai giornali dall’analista militare Daniel Ellsberg. Documenti che testimoniarono menzogne e omicidi di massa commessi nei vent’anni di conflitto – coinvolgendo cinque amministrazioni – e che suscitarono un’onda di indignazione pubblica senza precedenti.
The Post, ultima pellicola di Steven Spielberg in uscita nelle sale italiane il prossimo 1° febbraio, è il racconto della turbolenta vicenda americana che precedette un altro scandalo della presidenza Nixon, il Watergate. Il film, presentato a Milano con la partecipazione del cast composto da Tom Hanks e Meryl Streep, è un appello al giornalismo inteso come watchdog della democrazia e alla difesa della libertà di stampa – come recita il primo emendamento della Costituzione americana.
Hanks, per la prima volta in coppia con Streep, interpreta nell’ultima fatica spielberghiana il direttore del Washington Post (Ben Bradlee), sempre alla ricerca di nuovi scoop per far crescere la sua testata – allora ancora locale. Meryl, invece, è la coraggiosa Katharine Graham, prima donna editrice salita al potere in un mondo gestito da uomini.
“Nel 1971 fu una sfida immensa – per la quale le due testate, per richiesta dell’allora presidente Nixon, finirono al giudizio della Corte Suprema – pubblicare tutte le migliaia di pagine dei Pentagon Papers nonostante l’ingiunzione”, ha sostenuto Spielberg alla presentazione italiana di The Post. “Si trattava di interesse pubblico, di dovere della stampa libera controllare l’operato del governo”. Il regista di Lincoln, poi, volgendo l’attenzione alla situazione attuale americana, ha aggiunto: “Oggi la libertà di stampa è ancora sotto attacco dalla nuova amministrazione, che spesso con facili etichette, tipo «è una fake news», boccia notizie che non piacciono al presidente Trump”. Ma la stampa statunitense, ha chiarito infine il cineasta, continua a lottare contro la disinformazione e ha supportato fin da subito The Post.