Chiara ha 21 anni e sogna di diventare un ingegnere biomedico. Frequenta il secondo anno nell’Università di Palermo e dopo la laurea spera di continuare gli studi con una specialistica. Ora che anche suo fratello ha iniziato l’Università, gli studi saranno un peso economico non indifferente per la famiglia di Chiara.
Dallo scorso anno il Governo ha disposto delle agevolazioni rispetto alle tasse universitarie per gli studenti più meritevoli che hanno difficoltà a pagare le rette. Poi ci sono le borse di studio. Peccato che non ci siano i fondi sufficienti per tutti e che la Sicilia sia tra le regioni in cui ne vengono erogate meno. La recente proposta di rendere gratuiti gli studi, da parte di Pietro Grasso, leader di Liberi e Uguali, ha scatenato il dibattito nel mondo universitario.
Dando speranza a tutti gli studenti che, come Chiara, hanno i requisiti in regola ma non vengono presi in considerazione dallo Stato. A causa di quell’anomalia solo italiana che va sotto il nome di “Idoneo non beneficiario”: gli aventi diritto restano esclusi per mancanza di fondi. Un unicum, nel panorama universitario mondiale.
Frequentare l’Università in Europa
Nel 2016 la percentuale di laureati è cresciuta notevolmente in tutta Europa. Ma non in Italia, che secondo Eurostat è penultima in classifica per numero di laureati, pari al 26% e davanti solo alla Romania. Interessante, considerando che di contro è quasi raddoppiato invece, il numero di giovani con un diploma superiore.
Il problema quindi, riguarda l’accesso alle Università. Secondo i dati Ocse infatti negli anni maggiormente colpiti dalla crisi, tra il 2008 e il 2014, il numero delle immatricolazioni è calato vertiginosamente. Interessando soprattutto le regioni del Sud e soprattutto le famiglie con più vincoli finanziari.
Il rapporto Ocse infatti mostra che le tasse universitarie sono cresciute del 60% negli ultimi 20 anni. E ad aggravare la situazione c’è l’idea comune degli italiani che la laurea non aiuti nella ricerca di un posto di lavoro. Così si innesta un circolo vizioso: le tasse sono alte e quindi ci sono meno iscritti, ci sono meno iscritti quindi le tasse aumentano. In modo del tutto atipico rispetto al resto d’Europa, dove molti paesi hanno già intrapreso la strada della gratuità degli studi.
Secondo Eurydice 2017-2018, il rapporto della Commissione europea che analizza tasse universitarie e supporto finanziario in 42 paesi, l’Italia si conferma al terzo posto per rette più salate d’Europa. Più cari, soltanto Olanda e Regno Unito. In media un anno di iscrizione a un percorso di studio triennale in Italia costa infatti 1.316 euro (4,3% in più rispetto al dato precedente).
Il paese più simile a noi in termini di costi è la Spagna (in media 1.262 euro all’anno). Ma è interessante che, grazie alle agevolazioni statali, gli studenti iberici tenuti a pagare le tasse sono il 71%, in Italia il 90%. Con parecchio distacco rispetto alla Francia, con il 61% degli studenti paganti.
Per capire quanto costa l’Università, infatti, bisogna tenere conto dei sistemi di esenzione dalle tasse e delle borse di studio. Altro punto per cui l’Italia conquista un primato in negativo, perché nel 2017 solo il 9% degli iscritti ha ricevuto una borsa di studio. Allarmante, considerando che in Francia si tratta del 40%, in Spagna del 30% e che persino in Germania, dove gli studi sono gratuiti, uno studente su quattro riceve un sostegno economico, in modo da poter fronteggiare i costi di vitto e alloggio. La stessa cosa succede nei paesi scandinavi come Danimarca, Finlandia e Svezia.
L’esempio tedesco
In Germania il progetto dell’Università gratuita è realtà in 14 land su 16. L’unica “tassa” che gli studenti sono tenuti a pagare è il Semesterticket, un tesserino dalla durata di sei mesi (circa 290 euro), che comprende le quote amministrative e dà diritto all’utilizzo di tutti i mezzi pubblici. Secondo l’Ufficio federale di statistica, il numero degli iscritti negli ultimi vent’anni è cresciuto di oltre un milione. Aumentate di un terzo anche le immatricolazioni di studenti europei ed extraeuropei, perché lì gli studi sono gratuiti anche per loro. Anche i costi della vita universitaria sono piuttosto bassi: la spesa media mensile di un alloggio è di 266 euro.
In Germania tutti i partiti politici concordano sulla gratuità degli studi e la spesa federale tedesca in “Education” è pari al 4,3% del Pil, contro il 4% della spesa italiana. Se si guarda ai valori assoluti però, nel 2016 la Germania ha investito oltre 129 miliardi, l’Italia supera a fatica i 65 miliardi. Sorprendente pensare che nel nostro paese, della spesa totale in Istruzione, soltanto l’1% è destinato alle Università.
Frequentare l’Università in Italia
400 milioni in più. In dieci anni, nelle sole Università statali, la spesa complessiva per le rette annuali è passata da circa 1 miliardo e 200 milioni a 1 miliardo e 600. Un peso enorme sulle spalle degli studenti, necessario a “coprire” la progressiva diminuzione dei finanziamenti statali. Lasciando escluse intere fasce di giovani dagli Atenei.
Come si è arrivati a questo punto? Il sindacato studentesco Unione degli Universitari, ha presentato un dossier per il 2017 intitolato Dieci anni sulle nostre spalle.
Secondo lo storico dei dati – fonte Istat – dal 2005 al 2015 l’Italia ha vissuto una vera e propria crisi del sistema di finanziamento alle Università.
Prima gli interventi penalizzanti del ministro Tremonti nel 2008 poi i tagli al sistema della Gelmini nel 2010, la liberalizzazione delle tasse durante il Governo “tecnico” e infine la riforma dell’Isee del 2015, hanno dato la spinta al sotto finanziamento, lasciando le nostre Università in rosso.
Nella Legge di Stabilità 2017 del Governo Renzi-Gentiloni, è stato inserito il cosiddetto Student Act, un piano di investimenti per Scuole, Università e ricerca, voluto fortemente dalla ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli. Novità principale della misura è la No tax area per il pagamento delle tasse: un sistema progressivo basato sulla dichiarazione Isee delle famiglie, con lo scopo di agevolar gli studenti con più difficoltà economiche.
Per la copertura di tali misure, è stato previsto un incremento al Fondo di finanziamento ordinario pari a 55 milioni di euro nel 2017 e di 105 milioni per il 2018. Inoltre, la manovra ha aggiunto 50 milioni anche al Fondo integrativo statale, ovvero quello destinato alle Regioni per la spartizione delle borse di studio.
Le proteste dei sindacati e la raccolta di firme per la legge di iniziativa popolare All-in, hanno spinto la Commissione Bilancio del Senato ad approvare per il 2018 un emendamento per l’aggiunta di altri 30 milioni per le borse di studio. Ma nel passaggio all’Aula, sono saltati ben un terzo dei fondi. Il corrispondente di 3.500 borse e altrettanti studenti tagliati fuori. Oltretutto, la quota è stata garantita grazie ad una ridistribuzione interna, cioè sottraendo fondi alle cosiddette “Cattedre Natta”.
La coperta insomma, resta corta. E il Diritto allo Studio di cui il Ministero parla (236, 8 milioni), è ancora insufficiente per soddisfare tutte le richieste. L’Italia è spaccata in due: le regioni più virtuose riescono a sopperire con i propri fondi alle carenze statali (l’Emilia-Romagna quest’anno ha coperto il 100% delle richieste), ma nelle regioni più svantaggiate i dati restano drammatici. Stando ai dati del Miur, a Napoli e Salerno ad esempio, nel 2017 gli idonei beneficiari erano solo il 55%. In Puglia nel nel mese di giugno, oltre 1500 studenti non avevano ancora ricevuto la prima rata.
E se il diritto allo studio fosse realtà?
Il prof. Alberto Baccini, docente di Economia Politica all’Università di Siena ed esperto di sistemi di finanziamento universitario, si è detto d’accordo con la proposta di Pietro Grasso, leader di Liberi e Uguali, di abolire le tasse per tutti gli studenti: “Credo sia un modo ragionevole per riportare al centro del dibattito politico il problema italiano dell’accesso alle Università. Ma sulla cifra da 1,6 miliardi di cui si è parlato, penso non ne valga la pena investirla tutta sulle tasse, potrebbe essere distribuita meglio”.
Professore, pensa che il sistema della no tax area sia valido e risolva il problema della poca affluenza negli Atenei?
“Il problema è che si rivolge ad una platea di studenti molto ridotta, la soglia dei 13.000 euro è davvero molto bassa. Nel 2017, di circa 1 milione e 600 iscritti hanno beneficiato delle esenzioni totali un terzo di loro e un altro terzo hanno ricevuto le agevolazioni. Ad ogni modo resta poi tutte le altre spese. Fra testi, abbonamento ai mezzi e affitto, gli studenti fuori sede rimangono comunque soffocati da questo sistema”.
Ma è sicuro che chi ne ha beneficiato fino ad ora, siano davvero i più “poveri”?
“Beh, il modello della no tax area è basato sulla dichiarazione del reddito e in Italia il reddito si evade…”
Cosa risponderebbe a chi contesta che l’Università gratuita favorirebbe i più ricchi?
“C’è un grande equivoco di fondo alla base di molti discorsi politici. Una cosa sono le imposte sul reddito, che sono progressive (più alto è il reddito, più si è tenuti a pagare), altra cosa sono le tasse, cioè un pagamento a fronte di una prestazione. Nel caso degli studi universitari non si può pagare di progressività. Dire che si fa un favore ai ricchi è un modo disonesto per impostare il problema”.
Un modello come quello tedesco potrebbe essere applicato anche all’Italia?
“Assolutamente. Purtroppo negli ultimi dieci anni le politiche di austerità dell’Italia sono andate nella direzione dei tagli e questo è successo soprattutto a discapito dell’Istruzione. Ora servirebbe un’inversione di tendenza, che è anche un modo diverso di concepire l’Università. Non più sul modello della Gran Bretagna, dove gli studi sono considerati un bene privato, a beneficio del singolo cittadino e dove quindi vige il sistema dei prestiti agli studenti, con tasse liberalizzate. Il modello europeo è esattamente opposto, l’Università è più simile ad un bene pubblico ed è a carico della fiscalità generale”.
Quali potrebbero essere i risultati?
“Abbiamo bisogno di smontare il luogo comune che i laureati non trovino lavoro allo stesso modo di chi ha conseguito solo un diploma di istruzione superiore. Sono i dati a dirlo e dobbiamo prenderne coscienza. Poi, penso che il numero degli iscritti, seppure in maniera graduale, aumenterebbe. La prova che questo modello funziona, sono gli esempi in giro per il mondo, dove l’affluenza è aumentata. Ed è questo il punto. Noi abbiamo bisogno di riportare la gente nelle aule delle Università”.