L’Oscar al capolavoro di Paolo Sorrentino, “La grande bellezza”, certifica la consacrazione di un regista che fin dal suo esordio con “L’uomo in più” nel 2001 non ha mai smesso di parlare del lato oscuro degli uomini e della vacuità dei legami sociali, tratto tipico della società postmoderna. Nel momento del trionfo, accanto a lui, c’era il suo attore feticcio, Toni Servillo. L’Oscar legittima il loro sodalizio, iniziato proprio con “L’uomo in più” e proseguito con “Le conseguenze dell’amore” e “Il Divo”, successi più di critica che di pubblico.
Durante la premiazione, Sorrentino non è sembrato emozionato e neanche sorpreso. Ha detto che la vittoria non era scontata perché i film concorrenti erano temibili, ma non sembrava crederlo fino in fondo. “La grande bellezza” aveva vinto prima i Golden Globes e poi i BAFTA (l’Oscar britannico). Un trionfo annunciato, tanto che una protagonista del film, Iaia Forte, intervistata da Sky nella nottata, prima della cerimonia, aveva detto: «Credo che vinceremo, siamo tutti qui in attesa. La forza dei film di Sorrentino? La loro diversità. Il cinema italiano è ripiegato sul naturalismo, lui ha scelto una strada diversa». Gianni Canova, scrittore e critico cinematografico, ha commentato: «Il discorso di Sorrentino è stato umile. Ha citato, quali fonti di ispirazione, il Fellini de “La dolce vita”, i Talking Heads, Scorsese e Maradona. Sono loro i quattro moschettieri che hanno dato linfa vitale al film». E ha poi proseguito: «È un successo che mancava da 15 anni. Da “La vita è bella” a “La grande bellezza. Notate? “Bella” e “bellezza”: è come se gli americani ci avessero assegnato il monopolio di questa dimensione estetica della vita».
Ma la vittoria dell’Oscar rappresenta la legittimazione di Sorrentino e del suo mondo d’immagini, non certo della cinematografia nazionale nel suo complesso. Il cinema italiano, come quello europeo, rimane poco esportabile e impantanato nella trattazione di questioni legate al qui ed ora. Un cinema fagocitato da quello degli Stati Uniti se si considera che il 40% della torta degli incassi è ogni anno riservata ai film d’oltreoceano. E questo non per una semplicistica superiorità di mezzi: il cinema americano, fin dalle sue origini, ha imparato a parlare a tutti, trattando tematiche universali. Due dei tre migliori registi italiani, Gabriele Salvatores e Giuseppe Tornatore, hanno girato i loro ultimi due film (“Educazione siberiana” e “La migliore offerta”) all’estero, con attori e maestranze interamente straniere. Quando riesce ad andare incontro ai gusti del pubblico, il cinema italiano lo fa attraverso commedie sceneggiate male e recitate ancora peggio.
Quando i fratelli Taviani, nel febbraio del 2012, vinsero l’Orso d’oro al Festival internazionale del cinema di Berlino con “Cesare deve morire”, la stampa si affrettò a parlare di «trionfo del cinema italiano». Nanni Moretti, distributore del film, affermò in modo caustico: «Questa è semplicemente la vittoria dei Taviani, non dell’Italia». Nella notte degli Oscar, abbiamo assistito al trionfo di Paolo Sorrentino, non certo del sistema cinematografico nazionale nel suo complesso, che versa ancora in stato comatoso.
Valerio Dardanelli