Nel terzo millennio la Football Association ha compiuto passi da gigante. La Premier League è il campionato più seguito nel mondo e, a livello economico, può fare affidamento su contratti miliardari e sponsorizzazioni esclusive, che ne aumentano l’appeal e lo rendono il torneo più ricco a livello globale.
Nel triennio 2016-2019 ha venduto i suoi diritti televisivi per poco meno di 6 miliardi di euro, scesi nel 2019-22 ai 5,6 miliardi versati da Sky Sports, Bt Group e Amazon. Cifre molto differenti da quelle della Serie A, che nell’ultima finestra 2018-21 ha ricavato da Sky e Dazn circa 3 miliardi di euro, praticamente la metà.
L’abisso tra i due campionati in termini di redistribuzione dei proventi è facilmente intuibile dal fatto che nella stagione appena conclusa (2019-2020) il Norwich, arrivato ventesimo in Premier, abbia incassato dalle tv 99,3 milioni di euro, quasi una decina in più della Juventus campione d’Italia, ferma a 91.
Negli ultimi sei anni la Premier è riuscita a espandere il proprio marchio, creando un vero e proprio “brand”. I ricavi da botteghino e merchandising, nonostante la svalutazione della sterlina, sono cresciuti in media del 20% ogni anno, mentre in Serie A l’aumento medio nelle stesse stagioni è pari al 6%, meno di un terzo.
Per documentare il differente appeal dei tornei, è utile confrontare le sponsorizzazioni di alcune compagnie di volo. In Premier League il Manchester City e l’Arsenal ricevono 100 milioni di euro da Etihad ed Emirates, mentre in Italia il Milan ricava 14 milioni dal sodalizio con lo stesso marchio e la Roma ne incasserà circa 40, ma in tre anni, da Qatar Airways.
La Premier è stato il primo campionato a vendere i diritti esclusivi al videogioco Fifa della Ea Sports nel 2016, entrando nel business degli e-sports, scelta poi imitata da Liga spagnola, Bundesliga tedesca e Ligue 1 francese. Squadre inglesi delle categorie inferiori possono vantare poi partner tecnici come Nike o Adidas o contratti con multinazionali: lo Stevenage Fc, che vivacchia in quarta serie, è sponsorizzato dal colosso dei fast food Burger King.
Pensare che negli anni ’80 l’Italia era l’esempio da seguire, con stadi all’avanguardia, giocatori di caratura internazionale anche nelle squadre medio-piccole, campionati avvincenti e numerosi successi in campo europeo e internazionale. In Inghilterra invece facevano i conti con la grana rappresentata dagli hooligans, le famigerate “firm”, gruppi di tifosi organizzati che terrorizzavano il paese e l’Europa intera.
In seguito alle stragi dell’Heysel a Bruxelles del 1985, dove persero la vita 39 persone, e dell’Hillsborough di Sheffield del 1989, la più grande tragedia del calcio inglese, in cui morirono 96 tifosi, l’allora primo ministro Margaret Thatcher prese provvedimenti molto duri contro le frange più violente e fece stilare il “Rapporto Taylor”.
Fu il primo passo con il quale i club britannici conquistarono nuovamente i loro tifosi, costruendo stadi di proprietà e sistemando gli spalti a ridosso del campo per una migliore visione e una maggiore spettacolarità, a differenza dell’Italia che si crogiolò sulle strutture olimpioniche costruite per il Mondiale.
Il giornalista economico Marcel Vulpis spiega a LumsaNews che “in occasione di Italia ’90 ci siamo trovati di fronte a impianti non progettati con una visione di medio-lungo periodo. Quest’errore l’abbiamo pagato negli anni successivi e oggi, a 30 anni da quell’evento, siamo costretti purtroppo a “recuperare”.
L’ex campione del Chelsea Gianfranco Zola, che ha giocato in Premier League e allenato nella massima serie e in Championship (la B inglese), evidenzia come “gli stadi inglesi sono più attrezzati e accoglienti rispetto a quelli italiani e ciò fa in modo che sia più piacevole godersi una partita dal vivo”.
Le statistiche relative all’ultima stagione pre-Covid, la 2018-2019, parlano di ben 38.188 spettatori medi a partita nella Premier, decisamente superiori ai 25.062 della Serie A, che ha paradossalmente una capienza media superiore a quella degli stadi inglesi e impianti sulla carta più “giovani”, con una media di 56 anni d’età, contro i 68 delle storiche strutture britanniche, che sono state però sostanzialmente rimodernate per adeguarle alle nuove norme di sicurezza.
In Inghilterra si giocano poi due competizioni parallele al campionato, molto diverse tra loro, anziché una. La Coppa di lega, ribattezzata Carabao Cup per via dello sponsor, comprende tutte le 92 squadre professionistiche provenienti dalla Premier e dalla Football League (Championship, League One e League Two).
La Fa Cup invece viene giocata da oltre 700 squadre professionistiche, semi-professionistiche e dilettantistiche e sovrasta nettamente la Coppa Italia per l’interesse che suscita all’estero e i diritti tv. Il torneo inglese dalla stagione 2018-2019 fino al 2024 otterrà quasi un miliardo di euro dai broadcast, mentre la Lega Calcio ha raccolto dal 2018 al 2021 appena 35 milioni. Merito anche di una formula molto efficace, perché le squadre sfavorite giocano generalmente in casa, mentre in Italia le “big” affrontano tra le mura amiche le vincitrici dei sedicesimi di finale, un vantaggio per il passaggio del turno.
Differenze rimarcate anche da Fabrizio Ravanelli, ex attaccante con un passato nel Middlesbrough finalista della Fa Cup nel 1997: “Il modo di intendere la Coppa da parte dei club inglesi è molto diverso dall’Italia, per loro è importante proprio come il campionato”. Affermazione condivisa da Zola: “La Fa Cup è la competizione più antica del mondo e questo spiega il fascino che emana”. La prima edizione venne giocata esattamente 150 anni fa, nel 1871.
Gli sforzi compiuti dalla Lega Calcio non sono ancora sufficienti secondo Vulpis: “La nostra Supercoppa è oggetto di interesse del mercato cinese e arabo, ma ci vorranno ancora anni per raggiungere la Fa Cup”. Il divario da colmare, insomma, resta ampio.