Prima dell’emergenza coronavirus, erano circa 570mila gli smart worker in Italia. Ma le cose stanno cambiando nelle ultime settimane. Dall’11 marzo, con la firma del Dpcm e con la quarantena allargata a tutti i cittadini italiani, molti dipendenti hanno visto cambiare le loro modalità di lavoro.
Da casa, armati di pc, si sono scoperti smart worker. Ma c’è chi anche si definisce “telelavoratore”. C’è infatti una differenza tra le due modalità, che sono normate a livello legislativo. A confermarlo a LumsaNews è Luca Brusamolino, esperto di Smart Working e Ceo di Workitect.
Lo smart working è infatti regolato dalla legge 81/2017, secondo cui “è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, caratterizzato dall’assenza di vincoli orari e spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi”. Lo smart worker, che quindi non può essere un freelance o un consulente, come spiega Brusamolino, ha un’autonomia di scelta di luoghi e di orari: le prestazioni lavorative non devono quindi superare l’orario previsto e garantito dal Ccnl e devono essere eseguite in spazi flessibili e non da una postazione lavorativa al 100% da remoto. Il dipendente, quindi, organizza la propria mole di lavoro in base al compimento di obiettivi in cicli lavorativi.
“Il telelavoro riguarda invece un altro istituto – spiega Brusamolino. Nasce a ridosso degli anni 2000 a seguito di una direttiva europea e prevede lo svolgimento della prestazione lavorativa a distanza rispetto alla sede centrale. Il datore di lavoro ha l’obbligo di fornire tutte le dotazioni necessarie (postazione di lavoro e tecnologia) e di garantire, anche attraverso ispezioni, la salute e sicurezza del lavoratore presso il suo domicilio”.
L’emergenza Coronavirus, già dall’esperienza cinese, è stato definito il più grande esperimento al mondo di remote working. Nei prossimi mesi si registrerà probabilmente un aumento dei lavoratori con contratto di smart working. Una situazione agevolata anche dall’apertura di numerosi bandi regionali ed europei per garantire un fondo a cui le aziende (soprattutto le Pmi) possono attingere per favorire il lavoro agile. Ma c’è molto da fare, ancora. Per superare il gap con gli altri paesi europei, l’Italia deve garantire e migliorare la cultura digitale e favorire l’investimento in tecnologia.
Gli ultra cinquantenni negli ultimi anni hanno dovuto rivoluzionare il loro modo di lavorare, avvicinandosi di più alla tecnologia. Non più faldoni e documenti cartacei, bensì file sul desktop o su pennette Usb. Un’evoluzione che però è stata recepita con difficoltà dai lavoratori prossimi alla pensione. Il gap tecnologico è così aumentato negli ultimi anni, rendendo l’Italia il fanalino di coda dei Paesi industrializzati per quel che riguarda la tecnologia. Ma c’è un altro punto: il nostro territorio non consente a tutti di navigare ad alta velocità. Secondo un’inchiesta di Milena Gabanelli, pubblicata sul Corriere della Sera lunedì 16 marzo, circa undici milioni di cittadini italiani non sono raggiunti dalla banda larga.
Le aziende si trovano davanti a un bivio. Le digitalizzazione del lavoro, sia per il “telelavoro”, sia per lo smart working, deve essere agevolata da maggiori finanziamenti da parte dello Stato. I vantaggi che il nostro paese potrebbe trarre dallo smart working sono tantissimi: “In termini di performance – sottolinea Brusamolino – uno smartworker rende il 15-20% in più rispetto al lavoratore non agile. C’è inoltre un vantaggio dal punto di vista climatico, grazie alla riduzione dello smog e del traffico nelle ore di punta”. Inoltre, conclude il CEO di Workitect, “Nel caso specifico dell’epidemia del coronavirus stiamo vedendo come il lavoro agile abbia garantito la business continuity per tantissime aziende”. Insomma, lo smart working potrebbe essere considerato il motore per l’economia italiana durante la quarantena. E non solo.