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Sfiducia ad Alfano: Letta difende il suo ministro ma il Pd si divide

di Fabio Grazzini18 Luglio 2013
18 Luglio 2013

Si discuterà domattina in Senato, la mozione di sfiducia contro il ministro dell’Interno e vicepresidente del Consiglio, Angelino Alfano, presentata da Movimento 5 Stelle e Sel a seguito della vicenda Shalabayeva. Un’altra grana per il governo Letta, che dopo l’uscita infelice di Roberto Calderoli sul ministro dell’integrazione Cécile Kyenge, si trova nuovamente in estrema difficoltà.

La spaccatura nel Pd. Il futuro della coalizione Pd-Pdl è dunque legato al voto di domani, un voto che per regolamento sarà nominale e che costringerà ciascun parlamentare a prendersi le proprie responsabilità dinanzi all’opinione pubblica. Fondamentale è dunque quanto verrà deciso oggi dall’assemblea dei senatori del Partito democratico, che in aula rappresentano il gruppo più numeroso ed eterogeneo. Una riunione che vedrà scontrarsi soprattutto la posizione dei renziani – sono una dozzina e a favore delle dimissioni di Alfano – e quella della segreteria del partito, che ha già fatto sapere che «non potranno essere votate le mozioni delle opposizioni contro il governo».
A metà strada tra queste due soluzioni si situa poi quella proposta dalla corrente compresa tra D’Alema e Bersani, che se da una parte richiede che Alfano rinunci al Viminale, dall’altra ritiene possibile che continui a occupare la carica di vicepresidente del Consiglio. «Una vicenda che finisce per colpire e indebolire la forza del governo – ha commentato D’Alema. Chi si è reso protagonista di questa vicenda se ne assumerà le responsabilità, ma in questo momento provocare una crisi di governo sarebbe irresponsabile. Se io fossi il ministro dell’Interno – ha aggiunto – andrei dal presidente del Consiglio e rimetterei le deleghe».

La prospettiva di Berlusconi e quella di Letta. Il centrodestra fa invece quadrato intorno ad Alfano, e respinge qualsiasi forma compromissoria di dimissioni. Lo stesso Berlusconi ha dichiarato che «Angelino non è assolutamente in discussione»: tutto l’affaire kazako, per il Cavaliere, è infatti «colpa dei burocrati e di quattro magistrati».
Per Enrico Letta, in visita a Londra, ospite del primo ministro David Cameron, il ministro Alfano non ha alcuna responsabilità per quanto accaduto. Rifacendosi alla relazione di Alessandro Pansa, capo della Polizia, il premier italiano ha sostenuto che da quel testo «emerge chiaramente la totale estraneità» del ministro. Lo stesso Pansa, nella giornata di ieri, ha ripetuto come né Alfano né il ministro degli Esteri, Emma Bonino, fossero a conoscenza dell’espulsione delle due donne kazake.
Letta perorerà dunque la sua causa sia oggi al Quirinale, davanti al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, sia domani, in aula, al momento del voto sulla mozione di sfiducia. Rumors danno infatti come profondamente turbato il capo dello Stato, che certamente non vede di buon occhio una crisi di governo in questo momento, con la recessione economica in atto e con la legge elettorale tutta da rifare.

Calderoli si scusa. Il “caso Kyenge” sembra poi essersi concluso con un lieto fine. Roberto Calderoli, il vicepresidente del Senato, dopo la tempesta mediatica da lui provocata con l’insulto razzista al ministro Kyenge, ha infine chiesto – sia pubblicamente che privatamente – scusa alla diretta interessata, inviandole anche un bel mazzo di fiori. Perdono prontamente accordato dalla Kyenge che ha dichiarato: «Ho accettato le scuse facendo capire che si può scherzare, fare un comizio, ma bisogna andare oltre le offese e mantenere comunque il rispetto dell’altro anche nella comunicazione. Lui ha fatto un passo importante che è quello di chiedere scusa – ha proseguito il ministro – ma è chiaro che il percorso continua e va oltre la mia persona. I fiori? Ho ritenuto che fosse il caso di portarli alla Madonna del Buon Consiglio».
Unica nota stonata il rapporto ancora incrinato tra Calderoli e Letta: il premier italiano ieri sera, ai microfoni della Cnn, ha infatti invitato ancora una volta il vicepresidente del Senato a dare le dimissioni: «se ne deve andare», la sua laconica richiesta.

Fabio Grazzini

 

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