Cecilia Brighi è segretaria generale dell’associazione “Italia-Birmania Insieme”. In questa intervista ha spiegato la possibile dinamiche dietro il ritrovamento delle pallottole italiane e il contributo dell’associazione.
Cosa è successo in Myanmar?
L’8 novembre ci sono state le elezioni politiche in Birmania, che hanno segnato la vittoria del partito di Aung San Suu Kyi. Secondo la Costituzione, il Parlamento birmano è composto, per il 25%, dai militari birmani. Suu Kyi ha vinto l’83% dei seggi eleggibili, mentre il partito legato ai militari ha ottenuto solo il 7% dei seggi eleggibili.
Il primo motivo del golpe è che comandante in capo Min Aung Hlaing sperava di ottenere la maggioranza necessaria per farsi eleggere come presidente della Repubblica per ottenere uno status diplomatico tale da poter essere tutelato di fronte alla Corte Penale Internazionale, che lo ha inquisito per violazione dei diritti umani. Il secondo motivo del golpe sono le leggi che il nuovo governo dell’Lnd avrebbe approvato. Prima tra tutte l controllo del traffico di stupefacenti come metanfetamine e oppio, gestito da milizie legate ai militari e che solo l’anno scorso hanno portato ai militari un introito pari a 71mld di dollari. Le altre leggi avrebbero riguardato la governance del sistema delle imprese, la trasparenza e la valutazione dell’impatto ambientale e sociale. Anche questo avrebbe coinvolto i militari, in quanto controllano oltre 120 imprese. I profitti di queste imprese, nonostante siano messe nel bilancio dello Stato, di fatto sono gestite da militari e loro affiliati. Il colpo di stato, in realtà, era stato preparato già da tempo. I militari, sapendo che avrebbero perso alle elezioni, avevano chiesto di posticipare il voto per via del Covid. Richiesta che è stata respinta, per cui i militari hanno attuato il colpo di stato. Pensavano che passasse sotto silenzio, senza una reazione sociale così forte, cosa che però c’è stata. Infatti, sono riusciti a far coalizzare tutte quelle forze democratiche che fino ad allora non avevano lavorato insieme, ovvero i gruppi etnici armati, Lnd e popolazione. Si sono unite l’etnia Bamar e le minoranze etniche: cosa prima impensabile. E questa alleanza ha dato vita ad una reazione sociale che i militari non si aspettavano.
A proposito della reazione di paesi come Usa, che ha applicato delle sanzioni economiche contro i vertici militari. Secondo lei è una misura efficace o ci sono altre strade percorribili?
Guardi, le sanzioni economiche sono fondamentali. Punto. L’Unione europea è divisa. Venerdì prossimo verranno approvate delle sanzioni che riguardano soltanto le entità militari ma non le loro aziende. Noi, come associazione, abbiamo scritto a Josep Borrell perché, a prescindere dalla gravità della situazione, l’unico modo per poter negoziare da una posizione di forza è quello di porre sanzioni su tutte le imprese di proprietà dei militari e delle banche e verso gli interessi finanziari che i militari hanno dentro e fuori al paese. Non sarà un percorso semplice, però è un passo assolutamente fondamentale e necessario.
E l’Italia può fare qualcosa?
Quello che l’Italia può fare è controllare accuratamente la corretta attuazione delle sanzioni. Noi abbiamo visto che nel 2008, quando venivano attuate sanzioni nei confronti della Birmania dopo la rivoluzione Zafferano, ci sono stati pochissimi controlli. Infatti abbiamo individuato diverse aziende che continuavano a commerciare nonostante le sanzioni. Questo perché il sistema di monitoraggio comune europeo non funzionava, tanto meno quello italiano. C’è stata una dichiarazione di blocco formale che nella sostanza, avendo chiuso gli occhi sulle procedure, ha permesso alle aziende italiane di esportare e importare dalla Birmania. Il problema del controllo del commercio è fondamentale, altrimenti sono chiacchiere.
E in questo frangente qual è la vostra attività?
Adesso abbiamo individuato l’elenco delle imprese di proprietà militare e l’abbiamo fornita al ministero degli Esteri. Abbiamo anche individuato anche l’esportazione di alcune munizioni. Sono state trovate delle munizioni di fabbricazione italiana. Adesso stiamo controllando con l’azienda produttrice, perché formalmente queste munizioni non possono essere esportate in Birmania, e non sono state importate in Birmania. Il problema è la triangolazione attraverso intermediari, che comprano e poi le fanno avere in Birmania.
Perché c’è una potenziale violazione di leggi anche europee?
Non tanto europee, ma italiane. C’è la legge 185/90 che vieta la vendita di armi ai paesi che violano i diritti umani. Il problema sta nel fatto che ci sono dei soggetti e delle imprese, che dichiarano di comprare per altri paesi e poi esportano in Birmania.
Quindi come sarebbero arrivate queste pallottole?
Faccia conto che lei è un’azienda italiana. Io sono una intermediaria che vuole comprare armi e munizioni in India. L’India è un paese a cui l’Italia può vendere armi e munizioni. Per cui io poi prendo queste armi e munizioni e le esporto in Birmania. E il gioco è fatto.
Ma l’azienda italiana era a conoscenza di questo traffico?
No, non è detto. Tra l’altro queste munizioni non sono per armi da guerra, ma sono per uso civile. Quindi la cosa è ancora più contorta. La Cheddite, quindi, può dire di averle vendute per la caccia, e invece poi sono utilizzate per sparare contro i manifestanti. Quindi c’è un problema di qualità dei controlli. Noi stiamo cercando quindi di ricostruire la filiera delle esportazioni.
Quindi questa è un’altra delle attività che l’associazione sta svolgendo?
Sì, noi lo stiamo facendo insieme alla campagna per il disarmo. Noi oltretutto abbiamo lanciato questa raccolta fondi per sostenere le organizzazioni dei lavoratori, le comunicazioni e il sostegno a coloro che stanno lottando in questo momento. Nessuno è in grado di sapere quanto durerà, per cui queste persone hanno bisogno di sostegno.