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La violenza delle baby gang
tra frustrazione post covid
e indifferenza dei genitori

La psicologa Samantha Vitali a Lumsanews

"Assente il supporto della famiglia"

di Paolo Consolini29 Marzo 2022
29 Marzo 2022

Samantha Vitali è una psicologa e psicoterapeuta di Parma. Collabora con la Lega Italiana Attacchi di Panico ed è docente al Master in Psicologia dello Sport di Milano.

Quali sono le caratteristiche principali che accomunano i ragazzi delle baby gang?

“Sicuramente esiste una mancanza di supporto alla crescita da parte della famiglia, un contesto familiare di trascuratezza emotiva. Questa situazione la si può trovare in tutte le classi sociali. In più l’esplosione di questo fenomeno si è avuta subito dopo la pandemia. La frustrazione legata a all’isolamento obbligatorio degli ultimi due anni e la mancata possibilità di poter trasgredire, che costituisce un elemento fondamentale di quella tappa della vita, hanno dato vita a questo tipo di comportamenti. Non è stato così per tutti: c’è chi ha riversato la frustrazione dentro di sé incappando in depressione, ansia o disturbi alimentari e chi appunto l’ha riversata verso l’esterno, verso la società”.

Si tratta solamente di emarginazione sociale o difficoltà economiche dei soggetti oppure si parla solamente di criminalità giovanile?

“Il disagio ha impattato su tutti i ragazzi. I minori che avevano genitori più attenti e vicini alle problematiche degli stessi sono riusciti a gestire meglio le insofferenze legate all’età. Chi non ha avuto questo supporto familiare ha riversato disagio e frustrazione in questi episodi di microcriminalità”.

La psicologa Samantha Vitali

Qual è il meccanismo mentale che scatta in coloro che agiscono così violentemente e dove trovano il “coraggio” di compiere queste azioni?

“Questa è la forza della disperazione. Dobbiamo anche ricordarci che in quella fascia d’età, sotto i 20/21 anni, le strutture neurologiche deputate al controllo degli impulsi non sono ancora perfettamente mature. Quindi se da un lato c’è una forte frustrazione emotiva, dall’altro non c’è ancora abbastanza controllo: questa è una miscela esplosiva che poi porta a questo tipo di fenomeni”.

Secondo lei i ragazzi minorenni agiscono così anche perché non temono ripercussioni penali?

“Questo sicuramente è vero, così come è vero che i più grandi sfruttano i più piccoli proprio per questi motivi. In diversi casi questi ragazzi poi vanno ad affiliarsi a clan già esistenti di microcriminalità organizzata”.

Quali sono le contromisure da adottare per cercare di arginare il fenomeno?

“Per quello che riguarda la famiglia, è assolutamente necessario affiancare i ragazzi il più possibile, sentire il loro disagio e mandarli dagli specialisti se hanno bisogno di un confronto con qualcuno di esterno. Per ciò che riguarda la società, invece, serve creare situazioni dove dare ascolto e sfogo a queste necessità che sono collegate ai comportamenti violenti. Questo lo si può fare con progetti di volontariato, con progetti a scuola per permettere ai giovani di elaborare tutto il loro vissuto in maniera produttiva. Criticare solamente non limita il fenomeno, anzi tende ad ampliarlo ancora di più. Se io non vengo compreso a casa e non vengo capito nemmeno dalla società cosa altro devo fare?”

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