Guardare avanti con fiducia per dare una scossa al paese. La strada è tracciata e non si può tornare indietro. La parola d’ordine lanciata ieri all’unisono da Renzi, Napolitano e Draghi è “rivoluzione”. In Italia e in Europa. Il messaggio è chiaro, diretto: l’Italia ha un futuro. Se lo hanno ripetuto in tre, quasi fossero d’accordo, bisogna crederci. E poco importa se la disoccupazione giovanile sfiora il 44%, livello raggiunto solo nel 1977, e ogni ora chiudono due imprese, secondo un’interessante ricerca del Sole24Ore. Cambiare si può e Renzi, in visita nella Silicon Valley, ha annunciato cambiamenti radicali: «Qui dite “Yes, we can”, mentre in Italia siamo abituati al “No, non si pote”. Dobbiamo smetterla di piangerci addosso. Nel nostro paese ci sono molte cose da cambiare, in modo quasi violento, mettendoci la forza delle idee e del cervello e noi lo faremo». Renzi sa cosa fare, il percorso è segnato: «Dobbiamo cancellare la parola “certificato” e creare un’amministrazione come una nuvola. Cambieremo il rapporto tra cittadini e burocrazia». C’è tanto lavoro da fare, in un paese che rifiuta la modernizzazione: «Quando dico nei talk show che l’Italia ha straordinarie capacità, passo per matto. Mi dicono che voglio fare terapia di gruppo». Eppure qualche inequivocabile segnale positivo c’è, a detta del premier: «Se oggi l’Italia ha un capo del governo con meno di 40 anni, che non ha padrini e padroni, non è per merito mio ma perché l’Italia ha creduto nel cambiamento». La rivoluzione, quindi, è già iniziata.
Le questioni spinose, Renzi le ha schivate. In fondo l’America è la terra dell’ottimismo, dei film a lieto fine, e certi discorsi avrebbero stonato. E allora è toccato a Napolitano parlare di lavoro e articolo 18, i temi che stanno spaccando il Pd a metà. Lo ha fatto indirettamente, il capo dello Stato, intervenendo durante la cerimonia di apertura dell’anno scolastico al Quirinale: «L’Italia non può restare prigioniera di corporativismi e conservatorismi». Dunque, è necessario cambiare, rivoluzionare: «Specialmente in Italia dobbiamo rinnovare decisamente le nostre istituzioni, le nostre strutture sociali, i nostri comportamenti collettivi». Le divisioni fanno male, è necessario marciare compatti: «Oggi non solo l’Italia ma tutta l’Europa è alle prese con una profonda crisi finanziaria, economica, sociale. E fa fatica a uscirne. Per farcela ci si deve non già chiudere nei vecchi recinti nazionali e sbraitare contro l’Europa, ma stringerci ancor di più in uno sforzo comune, integrare ancora di più le nostre energie, in spirito di solidarietà». Un endorsement chiaro, quello del capo dello Stato, nei confronti dell’azione di Renzi, frenata dalle resistenze interne della vecchia guardia del Pd che non ha digerito le intenzioni del premier in tema di lavoro.
Ma la politica interna ai tempi dell’Europa è spesso il riflesso condizionato dei voleri di Bruxelles. Quindi per fare la rivoluzione in Italia, e sistemare tutto quello che non va, c’è bisogno di un appoggio esterno. Un appoggio forte, influente. Mario Draghi, da quasi tre anni presidente della Bce, sa benissimo che senza il rilancio della domanda interna, sperare in una crescita del Pil è pura utopia. La Germania è il principale ostacolo a un cambio di rotta. Il diktat della Merkel è sempre lo stesso: controllo dei bilanci, taglio della spesa pubblica, rispetto dei parametri del “fiscal compact”. E allora ecco l’affondo di Draghi: «I paesi che hanno spazio di bilancio devono seguire le raccomandazioni europee che hanno loro stessi sottoscritto al Consiglio europeo. Nel Patto di stabilità ci sono margini di flessibilità per tutti. Chi non ha margini di bilancio può ridistribuire le priorità orientandole alla crescita, cioè dando priorità a investimenti, abbassando le tasse e pensando di ridurre la spesa improduttiva». La Merkel non avrà sorriso.
Dunque tre uomini per una “rivoluzione” che, partendo dall’Europa, coinvolgerà anche l’Italia. Una rivoluzione, al momento, invisibile.
Valerio Dardanelli