Sono passati più cento anni da quando, nel 1906, Alois Alzheimer descrisse per primo le caratteristiche della malattia pubblicando il caso di una donna di circa cinquant’anni, Auguste D., affetta da una patologia della corteccia cerebrale che le aveva causato perdita di memoria, disorientamento e allucinazioni, conducendola infine alla morte. Da allora molte conoscenze sono state acquisite, fino alla creazione dei primi farmaci, alla sperimentazione (problematica) dei vaccini, agli studi sul genoma umano.
Ma il futuro dipende ancora dalla ricerca; sono tanti i traguardi da raggiungere nella cura e soprattutto nell’assistenza; perché, nonostante l’Alzheimer sia una delle malattia su cui medici e scienziati s’interrogano di più per trovare adeguate soluzioni, ancora troppe sono le ipotesi sull’origine e l’evoluzione e troppo poche le certezze. È necessario, però, fare presto; dare il maggior numero di risposte in breve tempo.
Numeri da un’emergenza. Oggi l’Alzheimer è la causa più comune di demenza nella popolazione anziana, rappresentando circa il 50-75% dei casi di deterioramento mentale ad esordio tardivo. Le persone affette da demenza in Europa sono comprese tra 5,3 e 5,8 milioni (circa l’1,2% della popolazione); questo ci da un quadro delle proporzioni della malattia e della necessità di elaborare strategie mediche adeguate a frenare l’avanzata dell’Alzheimer; un fenomeno che, con l’invecchiamento della popolazione, è destinato a registrare numeri crescenti di anno in anno. Già oggi, nel mondo si registra un nuovo caso di demenza ogni 7 secondi; ed è previsto un raddoppio dei numeri nei prossimi 20 anni. In Italia oltre due milioni di famiglie hanno almeno un componente con problemi di disabilità cognitiva (il 10,3% del totale delle famiglie italiane).
Nel nostro Paese è affetto da Alzheimer, in forme e stati diversi, circa l’8% delle persone con più di 65 anni; la prevalenza raddoppia ogni 5 anni dopo i 60 anni, cosicché verso gli 85 anni si raggiunge un’incidenza di circa il 30%. C’è poi il problema dei costi: assistere i malati di Alzheimer costa ogni anno alla comunità quasi quindici milioni di euro; circa l’1% del Pil.
Si guarda perciò al futuro con un contenuto timore; è naturale che assisteremo a un costante aumento d’incidenza e prevalenza della malattia; i motivi sono abbastanza chiari: maggiori conoscenze, un miglioramento della diagnostica, una spiccata considerazione e sensibilizzazione sociale verso il fenomeno Alzheimer.
Basti pensare che, se ad inizio Novecento la percentuale di ultrasessantacinquenni era pari “solo” al 6% della popolazione mondiale, oggi questo numero è schizzato al 15,5% (si stima che, nel 2020, gli anziani saranno ben settecento milioni). Nonostante questo il malato di Alzheimer vive ancora in un limbo; c’è uno scarso riconoscimento della demenza come emergenza sanitaria, mentre questa dovrebbe essere “il problema” delle nostre società.
Programmi per il futuro. L’obiettivo è quello d’invertire la prospettiva; se in passato si pensava bastasse trattare farmacologicamente la malattia una volta manifestatasi, l’evidenza dei fatti e gli effetti limitati dei medicinali hanno condotto ad un ripensamento generale. Oggi, più che mai, la priorità è quella di una diagnosi precoce per scongiurare il rischio che l’Alzheimer si estenda a macchia d’olio tra gli anziani di domani. Anche se è lo stile di vita a fare ancora la differenza; perché se è vero che, nell’evoluzione della malattia, un buon 30% dipende da profili genetici ed ereditari (per ora non controllabili), il restante 70% vede l’individuo responsabile in prima persona.
Non è un caso che l’Alzheimer Usa Association abbia stilato un decalogo, le “regole d’oro” per un invecchiamento dignitoso e il più possibile sano.
Il decalogo aureo. La testa innanzitutto: la salute inizia dal cervello, uno degli organi più vitali del corpo e, per questo, bisognoso di cure e attenzione. Dal cervello al cuore il passo è breve: prevenire le malattie cardiache, l’ipertensione, il diabete e l’ictus è un buon viatico per diminuire i rischi di Alzheimer, avendo la ricerca appurato una stretta correlazione tra questi fattori e l’insorgere della malattia. Perché a contare sono i “numeri”: se tenere sotto controllo peso, pressione, colesterolo e glicemia è importante negli adulti, negli anziani diventa cruciale. Ma il cervello va anche nutrito, non solo preservato; sia dal punto di vista alimentare (assumendo meno grassi e più sostanze antiossidanti) sia da quello fisico: leggere, scrivere, coltivare interessi aiuta a mantenere le membrane attive e impegnate e stimola la crescita delle cellule e delle connessioni nervose.
Ancora meglio se il lavoro “mentale” è accompagnato da quello del corpo: il movimento ossigena il sangue e aiuta le cellule nervose (camminare, ad esempio, mezz’ora al giorno ridurrebbe notevolmente i rischi). Non trascurare, infine, il fatto di avere rapporti sociali, di occupare il tempo libero, di evitare “cattive abitudini” come bere e fumare. Iniziare, in sostanza, oggi a preparare il domani. Centrale, dunque, il ruolo svolto dalla cosiddetta “riserva funzionale”, un insieme di fattori che permettono di tamponare la degenerazione cognitiva.
Naturalmente ciò, da solo, non basta; il supporto della ricerca, delle strutture ospedaliere e del personale medico è ancora fondamentale; non potrebbe essere altrimenti. Quello che sta cambiando, semmai, è il modo d’intervenire nella cura e nella gestione della malattia. Si è capito che il farmaco, da solo, non è sufficiente a preservare le funzionalità residue; per ottimizzarne l’azione, questo va utilizzato all’interno di un “ambiente protesico”, di un’alleanza terapeutica che vede coinvolti medico, paziente e caregiver (infermiere, psicologo, parente, specialista).
La collaborazione prima di tutto. L’imperativo è uno: “fare rete”, coinvolgere il maggior numero possibile di soggetti per avere un quadro completo e accurato del morbo sotto ogni punto di vista. Solo l’integrazione delle conoscenze ed il continuo scambio d’informazioni tra chi cura, chi assiste, e chi è assistito può davvero garantire lo sviluppo di tecniche, strategie e procedure in grado di incidere significativamente sulla storia clinica della demenza di Alzheimer. A partire da chi è quotidianamente a contatto col malato, chi deve affrontare il maggior carico assistenziale: la famiglia.
C’è ancora una cattiva informazione sanitaria; spesso chi vive con il malato non riceve notizie sufficienti per attuare un contatto adeguato e gestire le situazioni critiche connesse con la malattia. I familiari, invece, possono diventare una preziosa fonte di conoscenza per il medico, segnalando l’esordio delle difficoltà cognitive, dei disturbi comportamentali, dei deficit funzionali; si potrebbe, in molti casi, “trattare” il morbo in uno stato ancora embrionale, rallentando i fenomeni degenerativi.
Poi, ovviamente, ci sono le strutture; quei reparti ospedalieri che, negli ultimi anni, hanno fatto passi da gigante per migliorare la degenza del malato; così, l’anziano colpito da Alzheimer, sempre più spesso esce dalle mura dei nosocomi per entrare in quelle delle comunità semiresidenziali: luoghi più adatti per curare un paziente affetto da demenza. L’ospedale, infatti, spesso rappresenta la negazione, in termini strutturali ed organizzativi, di quel “prendersi cura di” che caratterizza le necessità del malato di Alzheimer; un malato con delle caratteristiche quasi uniche. Per lui è fondamentale elaborare un modello di assistenza e non di assistenzialismo. Grazie all’esperienza delle comunità semiresidenziali, invece, si è fatto molto sul piano dello sviluppo delle cure anti-Alzheimer: si è ridotto il carico che prima gravava sui reparti geriatrici, in numero insufficiente per accogliere il crescente numero dei malati; si è potuto attivare quei programmi di recupero e riattivazione cerebrale che negli ospedali non sempre si riusciva a fare; si è dato vita a quelle forme di socialità tra pazienti, fondamentali per accompagnare il decorso della malattia; si è riscontrato un contenimento dei disturbi comportamentali che si manifestano nelle forme più acute di demenza. Il ruolo dell’ospedale, in sostanza, dovrebbe restare confinato alla diagnosi e alla ricerca.
La soluzione? Le Unità di Valutazione Alzheimer (U.V.A.), presenti in moltissimi ospedali sparsi sulla penisola. Con i suoi test, con l’approccio personalizzato al malato, con il continuo studio sui casi clinici trattati, con il bagaglio di esperienze trasferite dal paziente alla ricerca, le U.V.A. sono un’arma strategica per concentrare le forze e indirizzarle in maniera mirata a combattere la patologia e a difendere a tutti i costi ciò che l’Alzheimer toglie al malato più di ogni altra cosa: la dignità e l’identità personale, trasfigurate da una malattia ancora oggi troppo forte.
Marcello Gelardini