Il Referendum sull’autonomia di Lombardia e Veneto ha portato, come prevedibile, ad una vittoria del Sì, seppur il voto nelle due regioni è stato caratterizzato da una notevole differenza di affluenza alle urne, con il Veneto che ha raggiunto e superato il quorum (57,2%), mentre la Lombardia si è fermata soltanto al 39% degli aventi diritto. Nell’immediato futuro non cambia nulla, dal momento che il quesito referendario è consultivo e non vincolante, ma numerose saranno le implicazioni politiche e le conseguenze nei rapporti tra le due regioni e il Governo, che ha dato la sua disponibilità alle trattative.
Come ha sottolineato ai microfoni di Lumsanews Gianfranco Pasquino, politologo e professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna, la questione politica si intreccia inevitabilmente con la fine della legislatura e, con le elezioni all’orizzonte, il cammino di Lombardia e Veneto verso l’autonomia sembra essere soltanto alle fasi preliminari.
«Dal voto emerge naturalmente che i veneti sono molto inclini ad aumentare le competenze e i poteri delle loro regioni, soprattutto perché hanno percepito chiaramente il messaggio di tenersi più soldi. In Lombardia l’affluenza inferiore si è avuta perché le grandi città e in particolare Milano hanno un atteggiamento più europeista e probabilmente più cosmopolita, che invece le piccole città del Veneto non hanno e dunque hanno partecipato in modo inferiore e quindi complessivamente questo ha prodotto un esito più favorevole al Veneto e meno alla Lombardia, che però è allo stesso modo sufficientemente favorevole. Il malessere del Nord – che però è ridicolo, perché sono entrambe due regioni molto ricche – si è tradotto in questa richiesta di maggiore autonomia. Credo soprattutto perché nel Nord c’è un sentimento anti-meridionale che è innegabile e afferma che le regioni del Sud non sanno spendere i soldi e spendono anche quelli del Settentrione, che invece vuole tenerli per sé».
La differente affluenza riscontrata tra Lombardia e Veneto avrà conseguenze nelle trattative con il Governo?
«Non credo, perché sia Zaia che Maroni sapranno come coordinarsi, consapevoli che se trattano in maniera coordinata possono ottenere di più e in tempi relativamente brevi. Però qui sorge un’altra domanda, ovvero: quando cominciano le trattative? Siamo verso la fine della legislatura, con un governo che certamente ha molte altre priorità e che quindi non vuole impegnarsi su questo terreno, con un parlamento che pensa fondamentalmente a ricandidature e rielezioni. Quale governo potrebbe assumersi degli impegni adesso, nella prospettiva probabile che dopo il voto sarà un altro esecutivo ad occuparsene? Quindi siamo, nel migliore dei casi, ai preliminari».
Il nuovo Governo come gestirà queste trattative?
«Se verrà guidato addirittura da Salvini, immagino che il leader della Lega Nord avrà molta voglia di trattare con Zaia e Maroni. Quindi se il centrodestra vince si andrà nella direzione di una trattativa favorevole alle richieste referendarie. Se invece il prossimo Governo sarà di grande coalizione, vedremo che intenzioni avrà, ma comunque adesso vedo la situazione abbastanza nebulosa, anche perché due regioni che chiedono di cambiare il proprio statuto chiamano in causa indirettamente anche gli altri. Quasi tutte le altre, perché l’Emilia Romagna si è espressa, in maniera meno costosa e forse più efficace, con una dichiarazione di intenti».
Perché l’Emilia Romagna ha scelto un’altra direzione rispetto a Lombardia e Veneto?
«La differenza è tutta politica, perché l’Emilia Romagna è governata dal centrosinistra e non voleva comunque imbarazzare il “suo” Governo. La Lega amministra sia la Lombardia che il Veneto e quindi voleva proprio ottenere l’effetto contrario. Certamente, se dovessi esprimere un mio giudizio, sono dell’idea che non si dovrebbero spendere i soldi dei contribuenti, però Veneto e Lombardia ne hanno molti e hanno deciso di spenderli così. Una scelta che in linea di massima non approvo ma che non posso neanche condannare perché sta nell’autonomia delle due regioni».