Andrea Luchi è stato general manager in serie A1 della Virtus Bologna tra il 2007 e il 2009 e della Dinamo Sassari nella stagione 2006/2007.
Considerata la sua esperienza, cosa funziona e cosa no nella pallacanestro?
“In Italia siamo partiti dal modello del mecenatismo. Cioè una famiglia di imprenditori, al limite di liberi professionisti, prende una società per i più vari motivi, spesso la passione. A quel punto mette il nome dell’azienda alla squadra e quindi porta in detrazione fiscale una serie di costi. Questo è un modello che ha tenuto fino a metà anni novanta o primi anni duemila. Gli utili d’impresa poi si sono ridimensionati per vari motivi. A quel punto sarebbe stato opportuno mettersi a tavolino e individuare un modello sostenibile di autofinanziamento. Quindi lavorare molto forte sul contenimento dei costi e il contestuale procacciamento di nuovi ricavi. L’equilibrio economico-finanziario spesso è stato sottovalutato. E se si guarda la storia del basket italiano in tanti sono falliti. Poi grazie alla tradizione, alla cultura, all’entusiasmo e al seguito le squadre sono state rimesse in piedi. Secondo me è mancata la ricerca di nuove fonti di reddito, sfruttando il merchandising o i servizi per gli spettatori, come fanno in America e anche in maniera ancora più massiccia con il digital marketing per il quale in Italia siamo ancora all’età della pietra. Questo potrebbe alimentare tutta una serie di ricavi extra che potrebbero rappresentare ossigeno puro. In Italia poi siamo indietro anche dal punto di vista infrastrutturale”.
Cosa si intende per digital marketing?
“Il digital marketing rappresenta una precisa strategia, che un club attua coinvolgendo persone competenti. Sfruttando piattaforme social e delle big tech si riesce ad arrivare direttamente al cliente, che viene profilato in modo da conoscere tutti i suoi gusti. E così è possibile pianificare con più efficacia il marketing. In Nba infatti cambiano spesso i colori delle magliette, per venderne di più. In Italia se si guardano i bilanci il merchandising è insignificante. Ci sono poi le offerte di servizi complementari, anche in abbonamento. Ad esempio per vedere gli highlights delle partite o le interviste del dopopartita, con l’obiettivo finale di coinvolgere il più possibile i tifosi. Così si arriva direttamente nello smartphone del consumatore, che oggi chiameremmo follower. Perchè la community che segue una squadra non è costituita soltanto da quelli che vanno materialmente al palazzetto. Quando tempo fa ho studiato i bilanci Nba, il ticketing andava tra il 15 e il 18% dei ricavi totali. Il resto per loro sono diritti televisivi e merchandising, che rappresentano cifre mostruose a differenza nostra. Negli Usa tutto è programmato per fare spettacolo e business”.
Secondo lei questo è realmente replicabile in Italia?
“Non è tutto esportabile perché le abitudini e le culture sono diverse, però si potrebbe avviare uno studio di vendita del prodotto, perchè di fatto lo sport è questo, per capire come proporre qualcosa di simile in Italia. Tempo fa mi sono divertito a vedere quanti follower hanno sui social le squadre italiane di pallacanestro e alcune a star largo non ne hanno nemmeno 1000. Con questi numeri in effetti non ci fai niente. Capisco che nessuno potrà averne 16 milioni come i Los Angeles Lakers su Instagram, però ci sono delle strategie scientifiche che garantiscono risultati. Se la città della mia squadra ha 100mila abitanti, che diventano 200.000 con la provincia, io nel tempo posso arrivare a incassare 25.000 like, ovvero una platea che mi dà una risposta economica forte. Se ne ho 850 è ovvio che ogni operazione avrà un margine di efficacia decisamente più limitato”.