Brad Pitt, Julia Roberts, Dustin Hoffman, George Clooney: sembra il cast di un nuovo film di Mike Nichols, invece sono soltanto alcuni dei volti più amati del grande schermo che, sedotti da cachet a otto cifre, scendono dall’Olimpo di Hollywood al mondo della pubblicità. Ma quando nello spot il divo diventa umano, troppo umano, un rischio incombe dietro l’angolo: perdere la faccia, oltre che mettercela. Kevin Costner, l’ultimo convertito al marketing italiano, ne sa qualcosa.
Era il 1989 quando l’attore americano rifiutava il ruolo dell’agente Cia, Jack Ryan, in Caccia a Ottobre rosso, e gli otto milioni di dollari annessi, per buttarsi anima e corpo in Balla coi Lupi. Il tempo avrebbe dato ragione al suo coraggio di produttore, regista e attore: il progetto in cui aveva investito 18 milioni gliene fece guadagnare 40. L’Academy premiò la pellicola con sette Oscar, in un periodo in cui il genere western era in crisi. Il pubblico, commosso dal linguaggio dei sentimenti della tribù di “Dieci Orsi”, si affezionò al tenente John Dunbar, divenuto “Balla coi Lupi”. L’interpretazione lo consacrò tra i big della settima arte, complice il fascino disinvolto con cui aveva conquistato “Alzata con pugno” e milioni di spettatrici.
Venticinque anni dopo quella star vola ad Amalfi perché in Italia c’è «una grande cucina e un grande tonno». A rivelarlo è Kevin Costner in persona nella pubblicità «Rio Mare, so good» di cui è testimonial. Ma non proprio «so good» è sembrata la pubblicità a campani, cineasti e consumatori. Riflettori puntati sul faro/set. Nella realtà non esiste: «è stato costruito sopra la Torre Saracena. È un inutile e patetico abuso realizzato con il computer che abbruttisce anche la zona», gridano politici e commentatori locali. Al malcontento del popolo amalfitano, si aggiunge l’ironia mista a disappunto del popolo della rete: «Sì, però Kevin Costner poteva pure impararsele tre parole in italiano, deve parla’ de tonno mica de fisica astronomica!»; «da Balla coi lupi a Balla coi tonni #bruttafine»; «perché Kevin Costner mangia tonno in scatola in costiera amalfitana?». L’importante, insegnano i guru del marketing, è che se ne parli.
«A ben vedere, però, più che gossip, dallo spot Rio Mare nasce disorientamento», chiarisce Donatella Pacelli, docente di Sociologia presso l’Università Lumsa di Roma. «Il ricorso alle celebrità nella comunicazione pubblicitaria non è nuovo». Chi non ricorda «Oui, je suis Catherine Deneuve» con cui l’attrice parigina promuoveva nel 1982 la Lancia Prisma LX? «Tuttavia – continua la professoressa – negli ultimi mesi stiamo assistendo a un bombardamento mediatico accompagnato da un cambiamento estetico-narrativo che consiste nella totale decontestualizzazione del divo. Nello spot irrompe nella quotidianità, recitando un ruolo eccentrico rispetto a quelli a cui ci ha abituati, con risultati risibili». Così, le réclame rischiano di desacralizzare il mito e spogliarlo dell’appeal costruito in anni di carriera. Ai fan del «“manzo” Kevin Costner finito a pubblicizzare tonni», gli anni di L’uomo dei sogni, Guardia del corpo e Robin Hood-Principe dei Ladri sembrano lontani anni luce.
Discorso analogo per Antonio Banderas: nel 1998 nei panni di Zorro svestiva a duello Catherine Zeta-Jones. Dal 2012 offre flauti e tarallucci a mamme e bambini o disquisisce con la gallina Rosita sul galletto ideale, mentre inforna gli omonimi frollini. Il quadretto ha solleticato anche il comico Maurizio Crozza che nel 2013, nello show Crozza nel Paese delle Meraviglie (La7), ha portato in scena il siparietto ideato da JWT Italy. Il suo «focoso mugnaio» insegna a una mamma a fare i biscotti in un crescendo di doppi sensi, perché «il segreto è la passione».
«A volte la star sopperisce alla mancanza di idee. Da aprile gira in tv lo spot Crodino (anche questo di JWT, ndr) con protagonista Owen Wilson, o meglio, un clone dei suoi personaggi di Starsky & Hutch o Zoolander, film apprezzati dai giovani target della campagna», spiega Daniela Compassi, redattrice dell’osservatorio Brandforum e cultore di Storia e Linguaggi della pubblicità alla Cattolica di Milano. «Il nesso col prodotto? Wilson è biondo e simpatico, come il “biondo aperitivo zero impegnativo”».
Altre volte, invece, aggiunge Compassi, «il connubio funziona e fa bene sia al divo, sia al marchio. È credibile, ad esempio, che George Clooney beva il caffè Nespresso». Nel 2010 l’azienda fa ambo: affianco all’ex dottor Ross di E.R. ingaggia John Malkovich come San Pietro e sposta il ciak nei cieli di Lavazza. L’azienda torinese raccoglie la sfida e porta nel paradiso di Bonolis e Laurenti la “Pretty Woman” Julia Roberts, versione Venere di Botticelli, spenta. Non una parola dalla bocca dell’allora Erin Brockovich, soltanto, dopo un sorso di caffè, un prezioso sorriso costato 1,5 milioni di dollari: il «potere della star» di cui parlava Lee Strasberg.
Anche lo storico allievo dell’Actor’s Studio, Dustin Hoffman, ha fatto da ambasciatore al caffè italiano. Nel 2005 vanno in onda sette spot girati con il «maestro Vergnano» che gli insegna i trucchi per un’ottima tazzina: pillole di 30 secondi in cui si vede un attore di “Metodo” a lavoro. La Regione Marche gli chiede il bis nel 2009. Hoffman accetta: attraversa tutta la Regione, provando e riprovando la corretta pronuncia dell’Infinito di Leopardi, fino all’esibizione al Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno, città che lo aveva accolto già nel 1972 per il film Alfredo, Alfredo. Anche se suda un po’ di più, intasca come Roberts: «neanche troppo, visto che i compensi possono essere anche di decine di milioni», sottolinea Gianpietro Vigorelli, fondatore e presidente fino al 2011 (quando si è ritirato) della creativa DLV BBDO, leader del settore in Italia. Sono suoi gli spot per Coop e Bmw con la regia di Woody Allen e Spike Lee. Sono suoi gli spot per Barilla, Damiani e Ras Assicurazioni con Cindy Crawford, Brad Pitt e Sean Connery. «Ho costruito storie in cui il prodotto è entrato in modo coerente e ho usato l’attore famoso, appunto, come attore. È diverso dal mettergli un prodotto in mano e fargli dire che lo consuma. Sono un Art director e “art” sta per artigianale e artistico».
Ecco, dunque, che, accanto a discusse soluzioni, convivono pubblicità paragonabili a veri e propri corti. Si veda anche Uma Thurman per Alfa Romeo, Harrison Ford per Lancia Lybra (sì, Ford per Fiat), o lo spot del profumo “The One” per cui D&G ha calato un tris di Oscar: Scarlett Johansson, Matthew McConaughey e Martin Scorsese. «Nel caso di prodotti di lusso come auto o cosmetici – spiega Pacelli – il divo resta distante, avvolto nell’ambiente onirico che gli è consono. Ciò soddisfa il bisogno immaginifico di chi guarda, che per emulazione compra». E allora, aziende permettendo, si lasci al consumatore il sogno e al divo la sua sacralità, salva da farine e grissini.
Di Anna Serafini