Piero Polidoro, professore di Semiotica e di Analisi dei siti web all’Università Lumsa di Roma, ha analizzato il fenomeno dei podcast, con uno sguardo rivolto alla loro diffusione e fruizione.
Secondo alcuni studiosi, il podcast sta segnando una rivoluzione in ambito mediatico e culturale. Perché ciò sta accadendo?
«Non so se si può parlare di una vera e propria rivoluzione. Di certo abbiamo un nuovo medium, dove per medium non si intende solo un mezzo tecnico, ma una forma di comunicazione. Il podcast, infatti, non equivale a una trasmissione radiofonica, ma crea una forma diversa di comunicazione che, per esempio, predilige spesso tempi più brevi o argomenti più specialistici. Alcune indagini condotte negli Usa ci dicono molto su queste differenze: le persone in auto ascoltano la radio, mentre a casa più facilmente ascoltano un podcast. Ciò mi fa pensare a un’opposizione fra una fruizione distratta, di sottofondo (mentre guido), a una fruizione più concentrata e motivata, su argomenti che mi interessano maggiormente. Insomma, il podcast probabilmente soddisfa meglio della radio una certa fetta di bisogni: ha la sua nicchia, e quella nicchia ha forse finalmente trovato il suo medium ideale, mentre prima si doveva accontentare della radio tradizionale».
I giornali italiani hanno iniziato a interessarsi al podcast come strumento per diffondere l’informazione. Perché è stata varcata questa frontiera? Porterà a dei risultati positivi?
«Qui bisogna chiarire che esistono principalmente due modi di pensare il podcast. Il primo è quello di un modo per riproporre, o riciclare, contenuti che erano stati principalmente realizzati per un altro scopo: è il caso del podcast della trasmissione radiofonica già andata in onda. Il secondo modo è quello del prodotto realizzato appositamente per il podcast (e che quindi ne dovrebbe rispettare maggiormente la forma comunicativa e i vincoli). A me sembra che per ora – almeno da noi – quello che c’è corrisponda di più al primo modo, forse meno interessante. Ma diamo il tempo affinché si diffondano sempre di più contenuti originali. E vediamo, anche nel panorama internazionale, se questa forma di comunicazione saprà costruire un linguaggio innovativo, magari interattivo, come per esempio è successo per i siti web giornalistici con i cosiddetti “news packages” – penso a Snowfall del New York Times e agli NSA Files: Decoded del Guardian».
Pensa che in Italia si potranno mai raggiungere gli stessi livelli di diffusione ottenuti negli Usa e nel resto del mondo?
«Difficile rispondere. Per ora, su tutti i principali fenomeni legati ai media digitali, siamo sempre stati un po’ indietro, ma poi siamo arrivati. È importante però sottolineare che – come in molte altre cose che riguardano i media – la questione non è tanto tecnologica, ma di contenuti. I podcast avranno successo anche da noi se sapranno essere di buon livello e magari innovativi. Speriamo ci sia l’ambiente culturale necessario per far fermentare le idee e, soprattutto, speriamo che testate e gruppi che potrebbero far crescere questo fenomeno decidano di mettersi in ascolto e di dedicare un po’ di tempo e risorse allo scouting».
Il podcast riuscirà a sostituire completamente la radio tradizionale?
«Non credo. Difficilmente i media si fagocitano tra di loro: più che altro si riassestano, trovando ognuno la propria nicchia. Le faccio un esempio: viviamo l’epoca di Netflix, ma quest’anno il Festival di Sanremo ha fatto un record di telespettatori. Questo perché il video on demand non darà mai l’emozione e l’euforia della fruizione collettiva, condita con un po’ di social tv o di social radio. Così, la stessa persona che la mattina ama ascoltare il giornale radio o una delle trasmissioni di dibattito e di intrattenimento – per via della diretta, del sentirsi parte di una comunità di ascoltatori e della possibilità di intervenire – la sera, tornata a casa, potrà dedicarsi alle sue passioni ascoltando un podcast».