Federico Masini, professore ordinario di Lingua e Letteratura Cinese all’Università di Roma La Sapienza, parla a Lumsanews del fenomeno migratorio cinese in Italia e del ruolo centrale del commercio per la comunità.
Qual è stato lo sviluppo storico dell’immigrazione cinese in Italia?
“L’immigrazione si è sviluppata in particolare tra la prima e la seconda guerra mondiale in Europa. Il primo Paese d’arrivo è stato la Francia e poi c’è stata un’impennata anche in Italia. Una seconda fase migratoria si è avuta in concomitanza con lo sviluppo economico cinese tra gli anni ‘70 e ‘80. Si tratta di un’immigrazione localizzata e fatta da poche famiglie che si conoscono tutte quante tra loro e che sono legate da rapporti familiari molto solidi”.
Come mai una volta che i cinesi arrivano in Italia si dedicano soprattutto al commercio?
“Alla fine degli anni ‘70 la Cina diventa la fabbrica del mondo, cioè inizia a produrre moltissime merci che vengono diffuse nei Paesi occidentali. Sono prodotti a basso costo che hanno inondato i nostri mercati e di cui i cinesi si fanno portatori e venditori. Questo è il motivo per il quale sono commercianti”.
Da dove reperiscono le risorse di capitali che investono in queste imprese?
“Le risorse sono solitamente familiari perché vige il principio del prestito che i giovani impiegano per aprire delle attività di commercio, per affittare i locali dove rivendono delle merci che comprano a loro volta da dei grossisti cinesi. Tutta la filiera, dunque, è completamente cinese, dall’importazione fino alla vendita al dettaglio”.
Da un punto di vista culturale, qual è il loro rapporto con il lavoro?
“I cinesi vedono nel commercio e nella produzione un miglioramento del proprio tenore di vita che è lo scopo dell’esistenza. Centrale è il pensiero di riscatto economico per loro e i propri figli”.
Si può parlare di reale integrazione di cinesi in Italia?
“La gran parte dei cinesi vuole vivere il meglio possibile in Italia ma il loro fine è rivolto alla madrepatria. L’obiettivo è accumulare le risorse necessarie per sostenere le generazioni successive. Lo sguardo è sempre verso il loro Paese di partenza, diversamente da altre comunità che una volta arrivate in Italia poi diventano stanziali e si sforzano di integrarsi nel tessuto italiano”.
Lo stesso vale per le nuove generazioni?
“No. C’è una seconda e terza generazione che ormai si è radicata. Sono ragazzi italiani a tutti gli effetti che hanno compiuto un ciclo scolastico in Italia. Sono completamente madrelingua, spesso laureati che si sono inseriti anche nel tessuto produttivo e commerciale italiano”.
Sembra però che in Italia ci sia ancora una certa diffidenza verso la comunità cinese. Come lo spiega?
“Una parte degli italiani ha una scarsa disponibilità ad accettare l’ineluttabile processo delle migrazioni umane. Pesano anche alcuni fenomeni di malavita che sono interni alla comunità cinese oppure legati a casi di soldi gestiti da organizzazioni criminali italiane”.