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Papa Francesco in visita a Sarajevo: una giornata per la pace

di Alessandro Testa07 Giugno 2015
07 Giugno 2015
papa Fransceco a Sarajevo (croce crivellata)

La messa di papa Francesco nello stadio di Sarajevo, con una croce che porta ancora i segni della guerra

«Mir vama»: pace a voi. E’ con lo stesso augurio usato da Gesù che papa Francesco ha salutato ieri il popolo di Sarajevo durante la sua breve visita nella capitale della Bosnia-Erzegovina. Appena poche ore, ma con un programma intensissimo: il pontefice romano ha avuto incontri con gli esponenti politici locali e ha tenuto ben sei discorsi – tutti in italiano – compresa l’omelia dell’affollatissima messa nello stadio Kosevo, a pochi metri da uno dei più grandi cimiteri della guerra civile, dove riposano molte vittime dei quattro terribili anni dell’assedio, il più lungo dell’era moderna.

«Beati gli operatori di pace». Tutta la visita del Papa è stata incentrata sulla pace e sugli sforzi che ciascuno deve fare per metterla in pratica: «Gesù non ha detto “beati i predicatori di pace” – ha spiegato il pontefice ai tanti fedeli venuti ad ascoltarlo (in maggioranza dalla vicina Croazia, ma c’erano anche molte bandiere della martoriata Ucraina) – perché tutti sono capaci di proclamarla, anche in maniera ipocrita o addirittura menzognera». Per Francesco serve dunque un impegno costante e sincero, perché «C’è chi vuole crearlo e fomentarlo deliberatamente, questo clima di guerra: in particolare coloro che cercano lo scontro tra diverse culture e civiltà, e anche chi specula sulle guerre per vendere armi – ha concluso il Papa – Ma la guerra significa bambini, donne e anziani nei campi profughi; significa case, strade, fabbriche distrutte; significa soprattutto tante vite spezzate. Voi lo sapete bene, per averlo sperimentato proprio qui: quanta sofferenza, quanta distruzione, quanto dolore!».

Wojtyla, diciotto anni fa. Rispetto alla prima visita di un pontefice a Sarajevo – quella di Giovanni Paolo II del 13 aprile 1997, subito dopo la fine del conflitto – molte cose sono cambiate, ma molte altre sono rimaste le stesse, a cominciare dall’arcivescovo Vinko Puljic, che Wojtyla volle inaspettatamente consacrare cardinale durante la guerra civile e che ieri ha accolto con gioia anche il suo (secondo) successore, che ha contribuito ad eleggere. E identico è stato il rivolgersi di Francesco «a tutti. Ma proprio a tutti», implorando «mai più la guerra». Diversa è invece la composizione etnica della Bosnia: i cattolici si sono dimezzati, e più in generale è cresciuto il peso dell’appartenenza religiosa – per esempio si vedono molte donne velate, anche se nel mondo islamico prevalgono di gran lunga le posizioni moderate – in quella che ai tempi della ex-Jugoslavia era una società assolutamente laica.

Una Bosnia ancora divisa. Soprattutto, però, la struttura istituzionale della Bosnia è rimasta congelata a quanto stabilito a livello internazionale con gli “accordi di Dayton”, che nel 1996 misero fine alla guerra, al prezzo però di una rigida suddivisione interna del potere su base etnica, ancora più minuziosa di quella libanese. La capitale Sarajevo è ancora quel modello di convivenza fra musulmani, ortodossi, cattolici ed ebrei che fino al 1992 le aveva fatto meritare il soprannome di “Gerusalemme d’Europa”, ma da quasi vent’anni la giovane nazione bosniaca è stata suddivisa in due “entità” (quella serba e la federazione bosgnacco-croata), con istituzioni centrali molto deboli a causa di regole che impongono l’accordo parlamentare fra tutte e tre le componenti per poter approvare le leggi. Perfino la presidenza della Repubblica è esercitata a turno ogni otto mesi da uno dei membri di uno speciale “triunvirato” interetnico, anche se c’è un unico primo ministro. Nel 2004 però le forze armate sono state unificate, e questo è stato certamente un primo grande passo avanti verso la pace e verso una nuova e più funzionale integrazione fra tutti i bosniaci, in particolare di quelli più giovani.

Alessandro Testa

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