HomeEsteri Nove anni dalla morte di Anna Politkovskaja, la giornalista che descriveva “quello che succede a chi non può vederlo”

Nove anni dalla morte di Anna Politkovskaja, la giornalista che descriveva “quello che succede a chi non può vederlo”

di Samantha De Martin06 Ottobre 2015
06 Ottobre 2015

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Non era una semplice spettatrice, Anna Stepanovna Politkovskaja – la giornalista russa nota per il suo impegno sul fronte dei diritti umani e per la sua opposizione al presidente della Federazione russa, Vladimir Putin – uccisa il 7 ottobre del 2006 a Mosca.

Questa coraggiosa donna quarantottenne, della cui morte ricorre domani il nono anniversario, fece del motto “l’unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede” il suo cavallo di battaglia. Figlia di due diplomatici sovietici di nazionalità ucraina di stanza presso l’Onu, Anna, dopo aver studiato giornalismo all’Università di Mosca, aveva iniziato la sua carriera al famoso giornale moscovita Izvestij per poi lavorare come cronista, come assistente del direttore all’Obscaja Gazeta, prima di scrivere per la Novaja Gazeta dove lavorerà fino alla morte.

Il suo impegno sul fronte dei diritti umani, la pubblicazione di alcuni libri – fortemente critici su Vladimir Putin – sulla conduzione della guerra in Cecenia, Daghestan e Inguscezia, le erano costate numerose minacce di morte. Eppure lei, la professionista dotata di una forte determinazione nel dare testimonianza e priorità alle cose “vedute con gli occhi e toccate con mano” con i suoi reportage ostinati e incalzanti, è stata, fino alla fine, una testimone partecipe.

Non risparmiava le critiche violente sull’operato delle forze russe in Cecenia, Anna, sui numerosi e documentati abusi commessi sulla popolazione civile, sui silenzi e sulle presunte connivenze degli ultimi due Primi ministri ceceni, Akhmad Kadyrov e suo figlio Ramsan, entrambi sostenuti da Mosca.

È stato il suo terzo libro, A small Corner of Hell: Dispatches From Chechnya, lo strumento attraverso cui ha denunciato la brutale guerra in Cecenia, le torture di migliaia di cittadini innocenti, i rapimenti, i massacri perpetrati dalle autorità federali russe o dalle forze cecene.

Si definiva una reietta, Anna Politkovskaja, esclusa dalle conferenze stampa e dalle iniziative nelle quali era prevista la partecipazione di funzionari del Cremlino, una donna che descriveva “quello che succede a chi non può vederlo”. Una missione che le costò la vita. Era il 7 ottobre del 2006, giorno del compleanno di Vladimir Putin, quando fu trovata morta nell’ascensore del suo palazzo a Mosca, un proiettile in testa, una pistola e quattro bossoli accanto al suo cadavere. Anna fu vittima di un omicidio premeditato il cui mandante resta, ad oggi, sconosciuto. Rimane, tuttavia, il ricordo del suo coraggio e la sua lapide, un giornale crivellato dai proiettili, la stessa che racchiude idealmente, l’impegno dei tanti giornalisti che, come lei, apolidi della verità, diedero la vita per ritrovarla, ma furono giustiziati senza che la loro morte fosse, talvolta, vendicata.

Dai reporter vittime della brutale violenza dello Stato Islamico – tra i tanti, James Foley e Steven Joel Sotloff – al giornalista indiano, Jagendra Singh, arso vivo dalla polizia per le sue critiche al ministro dello Stato di Uttar Pradesh (nell’India settentrionale), da Moises Sanchez Cerezo, il giornalista di 49 anni ucciso in Messico, all’afghano Zubair Hatami, vittima di un attentato a Kabul, sono tanti, troppi i nomi che compaiono sull’epigramma funebre del giornalismo. Un epitaffio che commemora gli omicidi, talvolta irrisolti, di chi ha pagato con la vita il tentativo di diffondere la verità con libertà e impegno.

Samantha De Martin

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