“Il Sudan viveva in una situazione di calma apparente. Già prima del 15 aprile era chiaro che il clima non fosse tranquillo”. Filippo Ivardi è un padre comboniano che fa il missionario in Sudan. Racconta in diretta dal suo osservatorio il dramma vissuto dalle popolazioni del Sud. “Dal 1° aprile, dopo un lungo governo comune tra militari e civili, il potere sarebbe dovuto passare totalmente nelle mani dei civili. Ma le tensioni montavano. Poi c’è stato un vero e proprio attacco da parte delle Rsf all’aeroporto di Khartoum e da lì è scoppiato questo conflitto che va avanti da sette mesi”.
Lei è in contatto con i confratelli che si trovano in Sudan?
“Dall’Italia sono costantemente in contatto con i confratelli e so che stanno bene. Purtroppo hanno dovuto lasciare Khartoum per ritirarsi prima in Egitto e ora sono a Porto Sudan, dove la situazione è un po’ più calma, è ancora sotto il controllo dell’esercito regolare, anche se qualcuno dice che sarà il prossimo obiettivo delle Rsf. Se le Forze di supporto rapido riuscissero ad arrivare fino a Porto Sudan, ovvero nel nordest del Paese, vorrebbe dire che hanno conquistato tutto. Non siamo lontani da questa prospettiva”.
Qual è il ruolo dei missionari soprattutto in situazioni di crisi umanitarie come questa?
“Daniele Comboni, il nostro fondatore, 150 anni fa in quelle terre ha dato la vita, ha portato il Vangelo e lottato contro la schiavitù. Noi continuiamo la sua missione. Lottiamo per la promozione dei mestieri e dei lavori. Restituiamo dignità a una popolazione e anche alla figura della donna, soprattutto in un contesto così contrassegnato dalla presenza islamica. In Sudan abbiamo dato vita a comunità cristiane che sono in costante dialogo con l’Islam. Abbiamo fondato i comboni college a Khartoum, fucina di formazione per quelli che sono diventati anche leader del Paese”.
Dopo 20 anni dall’ultimo genocidio del Darfur, avrebbe previsto queste nuove tragedie?
“Erano nell’aria, da tempo. Le aree del Darfur si sono sempre opposte al potere centrale. Sono popolazioni non arabe e quindi gioca sicuramente il fattore del razzismo nei loro confronti, ma ancora di più queste terre sono ricche di oro. Quindi fanno gola ai mercenari delle Rsf che non vogliono certo perderle”.
Come pensa che si potrebbe risolvere questo conflitto?
“Se si sedessero attorno a un tavolo seriamente non solo le due forze in campo ma anche le forze esterne coinvolte: Russia, Ciad ed Emirati Arabi Uniti, che finanziano le Rsf, insieme a Egitto, Arabia Saudia e Stati Uniti che, invece, sostengono il governo di Al Burhan, allora io credo davvero che si possa arrivare a un cessate il fuoco”.