Accedi, metti like, “followa”, accetta la challenge, posta, vai in live. Stacca, ma solo per qualche minuto. E ricomincia. È la spirale dei social network e risucchia tutti, anche i bambini. Le piattaforme lo sanno ma sembrano non intuirne i rischi, o forse si girano dall’altra parte, e l’uso dei social da parte dei più piccoli è ora un problema sentito a livello globale. Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, nel suo primo discorso ufficiale sullo stato dell’Unione al Congresso di quest’anno, ha lanciato un duro attacco ai social media ritenendoli “responsabili per l’esperimento nazionale che stanno conducendo sui nostri figli per fare profitto”. In effetti, durante la pandemia di Covid l’uso dei social da parte dei giovanissimi è aumentato, e proprio una ricerca statunitense condotta nel 2020 su un campione di 2000 minori da Thorn, un’organizzazione internazionale impegnata contro lo sfruttamento sessuale dei bambini, lo testimonia. Nonostante il limite minimo di età per iscriversi alle piattaforme sia di 13 anni, il 66% dei bambini tra i 9 e i 12 anni ha usato Instagram, TikTok, Facebook e Snapchat. Il Centro comune di ricerca (Jrc) presso la Commissione europea, con un’indagine effettuata in 11 Paesi Ue, restituisce poi una fotografia del nostro continente, in cui i bambini hanno passato in media 6,5 ore online ogni giorno nell’anno del Covid. E sebbene il 49% dei giovani intervistati non si sia imbattuto in situazioni pericolose sui social, il 30% di loro dichiara non non sentirsi “del tutto al sicuro” online.
Ma quali sono i rischi di una sovraesposizione di bambini e adolescenti ai social e, più in generale, ai digital device? Per Oliviero Fuzzi, neuropsichiatra infantile e vicepresidente della Società italiana neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (Sinpia), “sono abbastanza frequenti i disturbi del sonno dovuti all’abuso di schermi video”. Basti pensare che il 75,6% degli adolescenti in Italia non spegne il cellulare neanche di notte, come testimonia l’indagine nazionale “Adolescenza, un anno dopo” condotta nel 2021 dal Laboratorio Adolescenza e Istituto di ricerca Iard. Inoltre, il 73,4% dei giovani fa fatica ad addormentarsi. Come spiega Fuzzi a Lumsanews, tra i ragazzi più grandi è tipica “l’associazione tra utilizzo massiccio di internet e il ritiro sociale, nelle forme classiche di autoreclusione Hikikomori”, che portano l’adolescente a ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi, rinchiudendosi nella propria abitazione. Ma si corrono anche altri pericoli sul web. Il cyberbullismo è uno di questi e, secondo le statistiche del Jrc, il 44% dei bambini che lo ha subito almeno una volta nella vita dichiara che gli atti di violenza online si sono intensificati durante il lockdown. Anche l’adescamento online è un fenomeno tristemente frequente e, come spiega l’avvocato Marisa Marraffino, “il meccanismo è sempre lo stesso: all’inizio si gioca sulla fiducia della vittima inviando messaggi neutri. Solo dopo iniziano i messaggi più spinti e le richieste sessualmente esplicite”. Inoltre “non c’è un profilo unico di chi adesca i minori online”, e spesso i predatori cibernetici sono addirittura persone a contatto con i ragazzi.
I social più frequentati come Facebook, Instagram, YouTube e TikTok assorbono ogni giorno dati sensibili di migliaia di utenti, ma quando queste informazioni riguardano i minori i rischi aumentano. La tutela della privacy del bambino in rete è quindi fondamentale, ma è necessaria un’azione preventiva che coinvolga in primis le stesse piattaforme. “Attualmente non è ancora possibile verificare l’età dell’utente, ma è aumentato il numero di moderatori in lingua italiana che verificano un istante dopo l’ingresso in piattaforma”, afferma Guido Scorza, avvocato cassazionista e membro del Garante per la protezione dei dati personali, che lo scorso anno ha imposto a TikTok il blocco dei profili di chi non fosse possibile accertare l’età. Una volta constatata la violazione delle regole, la piattaforma “blocca l’utente e gli dà la possibilità di rientrare solo previa presentazione di documento d’identità, e quindi solo dimostrando di avere davvero 13 anni”, chiarisce Scorza. Un’azione di controllo preventivo di fondamentale importanza, considerando che il 40% dei bambini tra i 5 e i 10 anni fornirebbe dati e informazioni personali ad “amici” conosciuti in rete, come testimonia l’indagine effettuata nel 2021 in 88 scuole italiane da Kaspersky, un’azienda russa specializzata nella produzione di software progettati per la sicurezza informatica. Il rischio che possano incorrere in malintenzionati è concreto: il 36% dei piccoli intervistati ha dichiarato di aver ricevuto online proposte di giochi o sfide pericolose da parte di sconosciuti. I social, inoltre, sfruttano i dati personali condivisi dai minori a scopo di profilazione commerciale. La procedura è sempre la stessa, dice l’avvocato Scorza. Le piattaforme “monitorano il comportamento del bambino mentre usa il proprio profilo, raccolgono e organizzano le sue preferenze, per poi vendere a un gestore pubblicitario la possibilità di raggiungere un bambino che ha un’inclinazione verso un determinato prodotto”. Tuttavia, il gestore della piattaforma “ha bisogno di un consenso, che non può essere dato dal minore di 13 anni” e a meno che questo non venga dai genitori “la pubblicità targettizzata non è consentita e quando c’è è illecita, con la conseguenza che il Garante può intervenire”.
Nonostante tutte le insidie, i social non devono essere necessariamente un buco nero per i piccoli utenti, e durante la pandemia hanno dato modo ai bambini di evadere virtualmente dalle mura di casa e mantenere i contatti con amici e familiari. Ma è necessaria maggiore consapevolezza della potenza del mezzo, che deve partire innanzitutto dai genitori. È ormai consolidato il fenomeno dello “sharenting”, la costante condivisione online da parte dei genitori di immagini, situazioni e contenuti che riguardano i propri figli, ma per Scorza “la sovraesposizione del minore, anche se fatta in assoluta buona fede, è una condotta che espone a una serie di rischi concreti il minore”, che nel peggiore dei casi può finire in database pedopornografici. Anche scuola e istituzioni dovrebbero essere parte integrante del processo di apprendimento, e per Marraffino “si dovrebbe lavorare di più sull’educazione sessuale e digitale dei ragazzi”, perché “è un dovere di tutta la società aiutare i più piccoli a crescere”.