Fabrizio è un giovane musicista che ogni giorno s’interroga se le sue scelte siano quelle giuste. Daniele è il direttore di un grande Conservatorio italiano che assiste, quasi inerme, alla lenta agonia del suo mondo. Indiana, violoncellista affermata, cerca di fare qualcosa per aiutare i suoi colleghi a rialzare la testa. Stefano è il direttore di un’accademia privata e, da qualche tempo, rappresenta il nuovo che avanza.
Quattro storie, quattro esperienze diverse, accomunate da un filo conduttore: la passione per la musica “di qualità”. Pianeti dello stesso universo che, purtroppo, non gira più come una volta;parti di un ingranaggio che funziona ogni giorno più lentamente. La loro missione? Salvare il proprio settore dalle secche di una crisi che sembra non avere fine.
Perché l’Italia è, sì, un popolo di artisti, poeti, santi, navigatori; ma è anche una fucina di musicisti quasi senza uguali. I compositori e gli esecutori italiani, soprattutto “classici”, ci hanno fatto conoscere nel mondo più di ogni altra cosa. Un motivo di vanto, costruito nei secoli, che oggi rischia di essere mortificato dall’inerzia delle istituzioni e da una serie di concause che stanno stringendo questo patrimonio in una morsa letale. Un settore dietro cui, però, ci sono prima di tutto persone; ragazzi che credono nel proprio talento e dedicano una vita intera a qualcosa che sta diventando sempre più una passione che un lavoro.
La crisi dei Conservatori è sotto gli occhi di tutti. E’ sempre più frequente assistere a concerti eseguiti da un solista o da duetti; sono ogni anno di meno i gruppi da camera; quasi una chimera le orchestre stabili. I soldi non bastano, è questa la verità; l’austerity sta colpendo soprattutto i settori considerati meno produttivi; tra questi, il mondo della musica (classica e moderna) è stato tra i primi a doversi sacrificare.
Ciò ha comportato tagli sempre più consistenti al Fus (il Fondo unico per lo spettacolo, gestito dal Ministero dei Beni culturali). Uno degli ultimi provvedimenti firmati da Lorenzo Ornaghi nelle vesti di Ministro ha riguardato gli stanziamenti per il 2013: in totale appena 389,9 milioni di euro; quasi 21 milioni in meno rispetto al già “povero” fondo del 2012; oltre 130 milioni in meno rispetto al 2001. Di questa somma solo il 14,1% è destinato al comparto musica, con un calo di oltre 10 milioni di euro. Un po’ meglio è andata alle fondazioni liriche che, come di consueto, si divideranno il 47% della torta (che, in ogni caso, si “alleggerisce” di altri 10 milioni).
La conseguenza di una sforbiciata così consistente? innanzitutto un peggioramento della qualità sia economica (gli esecutori sono oggi decisamente sottopagati) sia artistica (come detto, si riducono gli organici e si organizzano sempre meno spettacoli). Molte realtà storiche del nostro Paese sono a rischio chiusura, altre lo hanno già fatto. Il “Maggio Fiorentino”, uno degli ultimi eventi lirici di risonanza internazionale che ancora si svolgono in Italia, è ormai con l’acqua alla gola (in vista tagli consistenti al personale). Stesso discorso per lo storico teatro Carlo Felice di Genova, vicino alla chiusura. E poi Trieste, Firenze, Palermo e Bari; quasi la metà dei teatri stabili italiani lottano ogni anno per non morire.
Non ultimo, la rapida marcia indietro degli spettatori; l’immobilismo si traduce, molto spesso, in scarso coinvolgimento popolare: nel 2012 le rappresentazioni liriche sono state 3.500, 14mila i concerti di musica leggera con un calo medio degli introiti di oltre il 5% rispetto al 2011.
Un circolo vizioso che, di certo, non fa bene alle nuove generazioni e a chi si appresta a calcare le scene per la prima volta; o, più realisticamente, desidererebbe farlo.
Ma non sarebbe onesto addossare tutte le colpe alla crisi economica; perché il problema è sistemico. L’ultima legge di riforma dei Conservatori risale al 1999 (con la legge 508) ma, ancora oggi, la sua attuazione non è completa, rischiando di diventare obsoleta prima ancora di entrare realmente in funzione.
In questi anni, poi, una serie di interventi normativi ha confuso ulteriormente le cose; riforme a metà che hanno affiancato ai diplomi tradizionali altre tipologie di titoli, trasformando la formazione musicale in un ibrido e peggiorando ulteriormente la già precaria condizione dei giovani musicisti. Oggi abbiamo un sistema 3+2 (simile a quello degli atenei tradizionali) con diplomi di primo livello, che abilitano anche all’insegnamento, e diplomi di secondo livello, equiparati al vecchio diploma superiore di conservatorio (e, con l’ultima legge di stabilità, anche alle lauree magistrali del Dams).
Insegnare: sì, ma dove? Nelle scuole medie si suonano solo alcuni strumenti (attualmente sono 4 le cattedre previste dai programmi ministeriali) tagliando fuori molti “specialisti”. Nei conservatori, paradossalmente, non serve alcun diploma per insegnare ma basta la comprovata attività artistica di un certo livello (alimentando docenze “a chiamata”).
L’introduzione dei corsi pre-accademici, organizzati per mettere tutte le matricole allo stesso livello e nati per rimediare alla scarsa preparazione musicale garantita dalla formazione primaria, poteva essere un’opportunità d’inserimento per molti precari; il congelamento delle cattedre imposto dal Ministero ha però fatto saltare i piani così, i docenti dei pre-corsi, sono oggi lavoratori “a progetto”, pagati anche dodici euro l’ora. Nello stesso istituto, quindi, non è poi così difficile trovare docenti contrattualizzati e precari lavorare fianco a fianco (a volte con mansioni molto simili); quello che cambia (e molto) è il trattamento economico e le tutele previdenziali che, nel secondo caso, risultano pressoché assenti.
C’è stato l’esperimento dei licei a indirizzo “musicale e coreutico” (introdotti nel 2005 dall’allora Ministro dell’Istruzione, Letizia Moratti) ma il loro numero è insufficiente a collocare un numero consistente di “conservatorismi”; pochissimi, oggi, gli istituti specializzati solo nell’indirizzo musicale, più frequente trovare alcune sezioni “dedicate” in altre tipologie di licei (quello artistico su tutti). Segno evidente di come, a distanza di otto anni, il progetto non sia mai veramente decollato.
Della carriera musicale vera e propria, poi, neanche a parlarne: i concorsi si stanno riducendo di pari passo al numero delle orchestre. Un esempio su tutti: nella regione Lazio l’orchestra giovanile ha chiuso i battenti l’anno scorso, mentre in altre regioni non è mai esistita.
Tutto ciò si traduce in migliaia di musicisti che non possono mantenersi con la propria arte ma devono necessariamente virare su altri lavori, suonando saltuariamente e mantenendo ai margini della loro vita quella che invece “è” la loro vita.
Eppure il numero delle “scuole della musica” continua a lievitare e il sistema dell’alta formazione artistica e musicale (Afam) che, dopo la riforma del ’99, ha accorpato tutte le strutture del comparto sotto la gestione del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca ci mostra un sistema tutt’altro che unitario ma, al contrario, estremamente frammentario.
54 conservatori, 21 istituti cosiddetti “pareggiati” (oggi denominati istituti superiori di studi musicali) e 2 accademie private riconosciute (il Siena Jazz, abilitato dal Miur a rilasciare diplomi accademici di primo livello, e il Saint Louis college of music di Roma, da quest’anno autorizzato a “sfornare” anche diplomati di secondo livello). 77 istituzioni autonome, identiche dal punto di vista giuridico, in grado di rilasciare titoli di studio accademici (riconosciuti). A conti fatti, una “popolazione” di iscritti che supera le 30mila unità; di questi, quasi 6mila appartenenti ancora al vecchio ordinamento e il resto diviso in maniera pressoché uguale tra Conservatori e Istituti superiori.
Tantissime scuole sovrapposte tra loro, molti laureati, pochissimi posti di lavoro: un’equazione che trascina nella disoccupazione o, nel migliore dei casi, nel precariato la maggior parte dei musicisti diplomati. Dati allarmanti che, se comparati con il quadro continentale, ci dicono che il problema è alla radice, alle politiche di gestione dei Conservatori.
Delle 250 istituzioni censite dall’Aec (l’associazione europea dei conservatori) le nostre rappresentano il 30% del totale, pur avendo l’Italia solo il 10,4% della popolazione dei trentuno Paesi aderenti. In Spagna, ad esempio, dove esiste un’unica istituzione di alta formazione musicale, le accademie sono in tutto 27 (all’incirca una ogni due milioni di abitanti); in Gran Bretagna, invece, i conservatori sono appena 9 (cui si aggiungono alcune università specializzate); in Francia, poi, solamente 22 istituti possono rilasciare diplomi accademici (esistono anche dei Conservatori regionali ma non rilasciano titoli di studio dell’alta formazione).
Solo la Germania ha più studenti dei nostri ma le accademie tedesche sono quasi la metà e la popolazione è decisamente superiore; qui troviamo, così, 24 Conservatori statali più 9 Scuole per lo studio della musica da chiesa (particolarità tutta teutonica), 8 accademie private ( a livello regionale) e Università dove si studia anche musica. Numeri, questi, che mostrano come in Italia si sia ingigantita a dismisura una macchina che, peraltro, non garantisce più sbocchi sufficienti. Una situazione alla lunga insostenibile ma che è il frutto del depauperamento di un patrimonio culturale prima ancora che artistico.
Tutti d’accordo sulla necessità d’intervenire; chi partendo dal piano legislativo, chi da quello culturale, chi da quello economico. La sostanza è che la situazione non è più disponibile, il sistema sta implodendo. Bisogna fare presto. Di fronte al silenzio e all’indifferenza delle istituzioni, la collaborazione di tutti gli operatori del settore è fondamentale. Un confronto costruttivo sui principali nodi problematici è l’ultima speranza per i molti talenti che, soprattutto nel nostro Paese, non riescono a vivere di “sola musica”.
Marcello Gelardini