«Nei momenti di crisi si deve avere il coraggio di rischiare». Stefano Mastruzzi, noto chitarrista e direttore del Saint Louis College of Music di Roma, giudica positivamente la scelta del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca di aprire il mondo accademico ai privati anche nel settore dell’alta formazione musicale.
Direttore, non è un azzardo aumentare il numero delle scuole riconosciute in uno dei momenti più difficile per l’intero settore musicale e per tutto il suo indotto?
«Proprio nei momenti di crisi, investire nella cultura e nella formazione rappresenta da sempre la scelta vincente, per offrire una professionalità e una possibilità di realizzazione in settori diversi da quelli tradizionali e ormai saturi. Anche per ché non è in crisi la musica, la musica è ovunque, nei film, nella radio, nei locali, nei cellulari».
Eppure è innegabile che la crisi ci sia.
«È in crisi l’industria discografica così come l’abbiamo conosciuta, che non ha saputo rinnovarsi e che ora sta chiudendo i battenti. Ma la musica viaggia su canali più veloci al passo con i tempi e oggi si vive di musica con il live, con progetti artistici, con le produzioni televisive, con i film, con la pubblicità, con le composizioni, con l’insegnamento»
Sta dicendo che si deve modernizzare il sistema, aprire gli occhi e la mente su altri orizzonti musicali?
«Il mondo dell’alta formazione musicale è storicamente molto legato alla musica classica, ma la musica moderna non può essere relegata ai margini, considerato che il mondo del lavoro offre più occasioni a un musicista moderno che a uno classico. È ormai obbligatorio, da un lato, continuare a coltivare la nostra tradizione, dall’altro, conoscere il presente e il mercato del lavoro e aggiornare l’insegnamento sulla base delle nuove forme di comunicazione e produzione musicali. Ben vengano la musica elettronica, un indirizzo specifico per la musica per film nuova forma d’arte del ‘900, il jazz, il pop, le contaminazioni, la musica etnica».
Vuole essere un attacco all’attuale articolazione dei Conservatori, ancora troppo ancorata al passato?
«Un po’ provocatoriamente potrei dire che, considerato come stanno andando le cose, probabilmente sarebbe stato meglio che il jazz e la popular music non fossero entrate mai nei Conservatori ma che fossero state create o accreditate Istituzioni ad esse interamente dedicate».
In che senso?
«Sono troppo diverse le metodologie, la strumentazione, le finalità, l’approccio tra la musica moderna e il mondo tradizionale della musica di Conservatorio. La commistione ha creato alcune singolarità, come quella di docenti di musica classica che improvvisamente si ritrovano a insegnare jazz avendolo praticato mai o in minima parte».
Cosa può dirci, da osservatore esterno, sulla difficile riforma dell’Alta formazione musicale nel nostro Paese?
«Il problema principale è quello delle risorse, la riforma iniziata fu fatta “senza oneri aggiuntivi per lo Stato”. Una riforma reale non può farsi in questo modo, altrimenti si cambia solo il nome delle cose e non cambia nulla in sostanza. Non sono errori che Istituzioni di Alta Formazione possano permettersi, stiamo parlando di Istituzioni e maestri cui affidiamo i nostri figli e il loro possibile futuro».
“Cambiare il nome alle cose” ha però significato anche ingigantire la macchina della formazione musicale: Conservatori, Istituti pareggiati, Accademie private.
«C’è grande confusione, non si capisce chi deve fare cosa. Dapprima i Conservatori sarebbero dovuti diventare l’eccellenza e occuparsi solo dei corsi di primo e secondo livello, un po’ come le Università. Poi improvvisamente hanno aperto anche loro i corsi pre-accademici, che dovevano essere gestiti invece nei licei musicali che però non hanno avuto un grande seguito se non in pochi casi. E’ un po’ come se l’Università La Sapienza aprisse domani dei corsi di liceo classico, non contribuirebbe certo alla chiarezza di funzionamento del sistema».
Non si poteva evitare questo groviglio di istituzioni molto simili tra loro?
«Certo che si poteva. I Conservatori hanno però dovuto farlo, altrimenti solo i pochi fortunati dei licei musicali avrebbero avuto la possibilità di accedere ai corsi accademici, ma i licei musicali sono davvero pochi in Italia. Le intenzioni erano e restano buone, ma i tempi di gestazione di un sistema più efficace ancora sono lunghi».
Qui torna il discorso delle scuole private riconosciute. Lei ha parlato di valore aggiunto.
«Le scuole di musica private, tra cui la nostra, contribuiscono positivamente al sistema, preparano i ragazzi in modo migliore; li seguono e li assecondano. Tra l’altro è una tendenza perfettamente in linea con quanto già avviene nel settore universitario italiano, pensiamo alle Università private Luiss e Bocconi. Sono convinto che l’intervento del privato, che ovviamente rispetti le medesime regole del settore pubblico, possa essere complementare e d’aiuto in un’ottica di sviluppo verso l’alto della qualità dell’insegnamento».
Ma non tutte le scuole saranno uguali. Ci sono meccanismi di controllo e garanzia?
«Le posso portare la nostra esperienza. Il percorso per il riconoscimento da parte del Ministero ha richiesto alcuni anni, durante i quali sono stati oggetto di analisi i nostri percorsi didattici, la qualità degli allievi in uscita (i diplomati), le strutture, le dotazione tecnica, gli strumenti, la qualità del corpo docente e tantissimi altri parametri, da parte di una Commissione di Valutazione del Sistema universitario (ANVUR) e da parte dello CNAM (Commissione per l’Alta Formazione Artistica Musicale)».
Ma, in concreto, quali sono i punti di forza di un’accademia privata riconosciuta?
«Da un punto di vista meramente organizzativo, sicuramente la possibilità di personalizzare il proprio percorso di studi, anche avuto conto delle disponibilità dell’allievo rappresenta un fattore importante. Molte volte, ai tempi del Conservatorio, ricordo che già lavoravo come insegnante di chitarra in varie scuole ma la segreteria del Conservatorio non ha mai cambiato una virgola degli orari a me assegnati. O andavano bene così o potevo anche andarmene. Oggi, molti ragazzi lavorano per mantenersi gli studi e la vita a Roma e non è giusto non tenere conto delle esigenze di ciascuno».
Mentre dal punto di vista pratico?
«Noi, ad esempio, possiamo vantare un corpo docente di altissimo profilo, più di 90 insegnanti, professionisti di fama che lavorano in team da tantissimi anni, con grande soddisfazione. Fondamentale è poi il Centro di Produzione artistico interno al Saint Louis che vuole creare occasioni di lavoro e di produzione discografica per i più talentuosi. Infine, le nostre etichette discografiche che producono i lavori dei nostri allievi e un’agenzia di management che, solo nel 2012, ha organizzato più di 300 concerti con i migliori talenti della nostra scuola».
Una visione tutto sommato “internazionale” della musica.
«Proprio così; è la nostra missione principale. Siamo in continuo confronto con molti Conservatori europei, far cui quello di Maastricht (con il quale abbiamo appena realizzato la sesta edizione del nostro concorso internazionale European Jazz Contest), il Conservatorio superiore di Musica di La Coruna, il Trinity Laban College di Londra, il Conservatorio di Utrecht, quello di Praga e molti altri. Il confronto con i docenti internazionali, la visita delle loro sedi, il colloquio con i ragazzi che li frequentano, le performance reciproche, l’analisi dei programmi didattici e di esame sono tutte fonti di ispirazione reciproca per perfezionare le proprie competenze. Guai però ad esagerare…».
Perché?
«Si pecca spesso di esterofilia. È d’obbligo, certo, per un ragazzo considerare la possibilità di un’esperienza all’estero, che senz’altro apre la mente; ma spesso è anche utile capire che tutto il mondo è Paese…e la vera sfida è fare qualcosa in Italia».
Una sfida che dovrebbero cogliere anche le istituzioni però?
«Loro dovrebbero collaborare fornendo agli studenti gli strumenti per poterlo fare; premiando le eccellenze con borse di studio, con sussidi per la produzione discografica e artistica; promuovendo la musica italiana jazz e popular, rendendola obbligatoria nei Festival internazionali che ricevono sovvenzioni (invece di regalare cifre spaventose ad artisti stranieri); si dovrebbero, poi, creare strutture concertistiche adeguate (basti pensare all’Auditorium di Roma, un investimento che alla fine sta giovando a tutti i musicisti) e ripensare tutto il sistema di assegnazione dei fondi del Ministero dello Spettacolo».
Da cosa si dovrebbe iniziare? Idee?
«In Francia, ad esempio, lo Stato sostiene i giovani artisti (anche i musicisti quindi) con una retribuzione mensile di circa 600 euro per tre anni, entro i quali l’artista dovrà sviluppare i propri progetti e rendersi autonomo. Sarebbe già un bell’esempio da seguire».
Lei, invece, cosa consiglia ai suoi allievi per fare di una passione un lavoro a tempo pieno?
«Prepararsi a tutto tondo: si vive di musica suonando, cantando, scrivendo, componendo, arrangiando, insegnando, viaggiando. I rapporti con altri musicisti sono determinanti, le occasioni di lavoro provengono da loro. Se si compone in solitaria davanti al computer, non succederà mai nulla; bisogna sapersi relazionare con gli altri musicisti, i giornalisti, gli addetti ai lavori e con il pubblico».
Ma, sinceramente, quante speranze nutre nell’immediato futuro?
«Anche se l’attenzione di chi ci governa è indirizzata altrove, sono abbastanza positivo. Quello musicale è sempre stato un settore poco coltivato, mentre il confronto con molte realtà europee mi fa capire come, altrove, esistano molte più opportunità».
Non mi sembra una visione così ottimistica.
«Confido molto nella conclusione del processo di riforma. Non è detto che, se finora è stato affrontato in maniera superficiale, da domani non si riesca a invertire la tendenza prendendo i provvedimenti più adeguati. In fondo, siamo ancora alle “prime pagine” del libro».
Marcello Gelardini