Storico della musica, esecutore, organizzatore di concerti ma soprattutto direttore di uno dei Conservatori più importanti d’Italia e membro del Consiglio nazionale per l’Alta formazione artistica e musicale. Chi meglio del Maestro Daniele Ficola può aiutare a inquadrare lo stato della musica di livello superiore (e non solo) nel nostro Paese.
Maestro, ma i Conservatori italiani sono davvero destinati a implodere?
«Non è detto. C’è sicuramente da lavorare, ma la base da cui partire è ottima. La musica fa parte del DNA degli italiani».
Allora qual è il problema?
«C’è un generale disinteresse degli organi centrali. Secondo me il potenziale artistico insito nei soprattutto nei nostri giovani viene sfruttato ben al di sotto del cinquanta per cento».
In che modo dobbiamo ripensare il sistema?
«Il problema è che, nonostante un’alta competitività, ci mancano consapevolezza, organizzazione e progettualità. Ovvio che l’arte non si nutra solo di queste tre categorie per essere espressa ma per essere aiutata ad “esserci” sì. E su questo piano c’è ancora tanta strada da fare».
Questo è lo spunto per un giudizio sulla riforma dei Conservatori; sebbene sia iniziata nel 1999 si parla di “eterna incompiuta”. Perché?
«La ragione è semplicissima: se da un lato essa sancisce che gli studi artistici e musicali sono da considerarsi di pari livello a quelli universitari, a prescindere dalla loro diversa natura, dall’altro scardina un sistema di istruzione che la tradizione italiana ha consolidato nei secoli. La riforma prevede che i Conservatori si occupino esclusivamente della parte “alta”».
La conseguenza più immediata di ciò?
«C’è stata un’endemica mancanza di progettualità. Il passaggio dal vecchio al nuovo sistema è avvenuto di colpo e senza soluzioni certe che assicurassero una buona alternativa per il segmento “inferiore”. I Conservatori di musica non hanno seguito la strada delle Accademie di danza, il cui studio continua ad iniziare fin dall’infanzia, a prescindere dalla scolarità».
Ma, in sostanza, cosa manca per completarla?
«Servirebbe un importate regolamento applicativo della legge che riguardasse la programmazione, sviluppo, razionalizzazione del sistema e reclutamento dei docenti. In realtà già esiste, ma giace nei cassetti ministeriali dal 2008».
A prescindere dai passaggi “formali”, come migliorare il sistema musicale in Italia?
«Dando riferimenti certi per la formazione di base; è un aspetto che va risolto con chiarezza. Gli studenti iscritti al segmento inferiore del vecchio ordinamento ad esaurimento e ai nuovi corsi di formazione di base costituiscono circa il settanta per cento della popolazione studentesca e hanno costituito da sempre presso le nostre istituzioni quella parte di insegnamento necessario alla formazione del futuro musicista, che al contrario di altre professioni deve iniziare da piccoli».
Su questo punto, non crede siano un’anomalia i tanti Conservatori (più gli istituti pareggiati e le accademie private), un numero che cresce di anno in anno?
«Questo è un nodo cruciale che difficilmente potrà essere risolto senza traumi. Il Conservatorio ad oggi è stata l’unica scuola di musica che ha assicurato un percorso verticale dall’infanzia al diploma con un unico insegnante ed anche una capillare diffusione della musica pratica non avendo alternative. Credo che fino a quando non sarà organizzato un percorso iniziale teso alla professionalizzazione (sia le scuole medie ad indirizzo musicale sia i licei musicali di nuova istituzione non assicurano questo) il Conservatorio resterà il punto di riferimento preferito. Vi sono giovani talenti che già a partire dai quattordici anni sono pronti per il diploma, lo studio di uno strumento è “atipico” rispetto a quello universitario».
Una possibile soluzione concreta?
«I Conservatori potrebbero continuare ad occuparsi della formazione di base e con l’autonomia statutaria prevista dalla legge decidere come articolarla e a chi affidare gli insegnamenti. Io non sono particolarmente affezionato all’idea di un unico insegnante dall’inizio alla fine degli studi, ma vorrei che la qualità fosse garantita».
In Europa però sono riusciti a trovare un equilibrio? Perché da noi no?
«Perché tra gli anni settanta e ottanta c’è stata la proliferazione delle istituzioni e delle cattedre in quanto allora non si concepiva, come avviene in altri paesi europei, la differenziazione degli studi presso istituzioni diverse a seconda dei livelli, come oggi invece la legge di riforma ci imporrebbe. Ripeto è un fenomeno italiano e di poche altre realtà europee ed è difficile da smantellare senza correttivi progressivi».
Gli istituti pareggiati non le sembrano una replica dei Conservatori; non basterebbe un’unica istituzione?
«Dal punto di vista normativo rilasciano lo stesso titolo ed i percorsi attivabili sono identici. Come dicevo prima, siamo in attesa dell’emanazione del regolamento applicativo, forse il più importante, della legge di riforma che riguarda lo sviluppo, la programmazione e la razionalizzazione del sistema che prevedesse anche l’istituzione di consorzi tra istituzioni, politecnici delle arti e altre forme di aggregazione».
In che modo procedere operativamente?
«Io sarei favorevole ad aggregazioni su base regionale per progetti o per determinati percorsi formativi tenendo conto delle vocazioni territoriali e della tradizione degli studi presso le singole istituzioni. E’ chiaro che oggi tutti non possono fare tutto, ma distribuire i carichi consentirebbe una efficace razionalizzazione senza correre il pericolo di rendere inutile la presenza di questa o quell’altra istituzione».
C’è poi il fenomeno delle scuole private, da poco equiparate ai Conservatori
«Personalmente valuto in maniera abbastanza critica questa questione. Non perché ce l’avessimo con le scuole o accademie private, anzi la libera professione dell’arte non può che portare giovamento, ma considerata la crisi del nostro sistema chiedevamo esclusivamente di uniformare il sistema normativo a quello dei Conservatori (per limitarci alla musica) in modo tale da operare ad “armi pari”, sia da un punto di vista qualitativo che di risorse economiche. Snellire per produrre più facilmente ed in autonomia. Questa la ricetta utile ad una sana competizione».
Parliamoci chiaro, il nodo è l’occupazione. Troppe strutture significano troppi diplomati. Un precariato che entra anche nei Conservatori. La moltiplicazione dei corsi abilitanti all’insegnamento, dovuto alla riforma, ha anche accresciuto il precariato anche nella docenza.
«Loro fanno parte di quel contingente di docenti più giovani che certamente costituiscono un valore aggiunto oramai imprescindibile per le nostre istituzioni. Si parla da anni della loro immissione in ruolo (tra l’altro la stragrande maggioranza su posti vacanti), ma la borsa del ministero delle finanze, ancora una volta, per loro non si apre e di conseguenza il nostro sistema di istruzione s’invecchia».
Aprire alle nuove tendenze musicali potrebbe agevolare il collocamento di un buon numero di diplomati.
«Questo già avviene ed è un indirizzo che si va consolidando. Le nostre istituzioni sono piene di studenti di questi nuovi settori. Come mi piace dire spesso i conservatori devono essere aperti a tutto purché si conservi l’approccio e la metodologia di insegnamento che tende a formare professionisti. Il Jazz, le nuove tecnologie, lo studio “informato” delle prassi esecutive sono oramai radicati nei nuovi ordinamenti didattici e, guarda caso, sono i percorsi che attirano più studenti».
Anche perché il settore classico è in caduta libera. Lei, da organizzatore di concerti, come giudica il momento. Davvero “la musica è finita”?
«Su questo punto bisognerebbe domandarsi come mai, tranne rare eccezioni, in Italia si lavora sempre in emergenza e spesso per conoscenze dirette (casuali o cercate). Evidentemente il problema sta anche alla base della società: se ci fosse una attenzione più diffusa nei confronti della cultura probabilmente avremmo in parlamento rappresentanti più efficaci nei confronti di essa. Ma ciò non accade e qualunque ministro dei beni culturali o dell’università e istruzione deve sempre fare i conti con la borsa del ministero delle finanze che di solito non è proprio incline ad aprirsi più tanto per loro. Le uniche risorse diciamo importanti vengono dalle politiche della comunità europea, ma sono un piccolo affluente nel mare dell’indifferenza».
Quindi il problema, oltre che economico, è culturale? Sta dicendo che anche noi siamo complici della crisi?
«Per paradosso in Italia esiste un “problema culturale nei confronti della cultura”, pur essendo la patria di tante forme d’arte. Bisognerebbe prendere il toro per le corna, dimostrare che di cultura si può vivere (anche se in termini di percentuali limitate) e avviare un graduale processo di rinnovamento dell’istruzione a partire dall’alfabetizzazione. Quanti musicisti e quanti artisti potrebbero essere coinvolti in queste azioni!»
Nel frattempo il numero dei disoccupati cresce. È oramai impossibile, per un giovane, pensare di vivere di “sola musica”?
«Direi proprio di sì. Certo, dipende ovviamente dai generi praticati e dal contesto sociale. Ma Il giovane diplomato in Conservatorio se non insegna a scuola (da precario) o fa concerti ogni tanto oppure deve accontentarsi di suonare, per pochi euro, ai matrimoni o nei pub la sera.
Ma cosa è cambiato rispetto al passato?
«Prima, per accedere alle professioni della musica, tranne eccezioni, si passava comunque dal Conservatorio e il repertorio classico trovava sbocco attraverso le numerose orchestre esistenti, teatri (oggi ancora aperti ma in forte declino produttivo come ben sappiamo), associazioni concertistiche di grande prestigio e tradizione (anche queste in seria difficoltà). In questi anni, il sistema produttivo non è più capace né di assorbire tutti talenti musicali che lo meriterebbero, né di mettere in condizione gli stessi di considerare la musica come loro unica professione».
Marcello Gelardini