Intervista a Giorgio Mulè (direttore di Panorama) condannato al carcere per omesso controllo e Walter Verini (capogruppo commissione Giustizia PD), che a maggio dello scorso anno ha presentato il provvedimento attualmente in discussione al Senato
L’Italia è il 49esimo Stato per libertà di stampa nella classifica stilata da Reporters Sans Frontiers diramata lo scorso 12 febbraio. E ha guadagnato rispetto al 2013 ben 9 posizioni. Anzi secondo l’Ong sarebbe nell’Europa Meridionale “l’unica evoluzione positiva, finalmente uscita da una spirale negativa preparando una legge incoraggiante per depenalizzare la diffamazione a mezzo stampa”.
Tutto bellissimo. Ma i fatti parlano diversamente: Francia, Germania e Inghilterra hanno abolito la pena detentiva per il reato di diffamazione a mezzo stampa; la Spagna l’ha mantenuta nei casi più gravi, ma da quando la norma è in vigore nessun giornalista è finito in carcere. Sono, invece, nell’ordine delle migliaia i giornalisti che in Italia hanno subito come condanna il carcere, secondo l’osservatorio dell’organizzazione “Ossigeno per l’Informazione”. E lo studio è stato presentato appena cinque giorni prima della pubblicazione della classifica dell’organizzazione francese, nella sede di Roma della Fsni, in occasione della conferenza “Diffamazione e Libertà di Stampa” (promossa dalla Asr, dall’Odg del Lazio e “Ossigeno per l’informazione”, appunto).
È vero, in Senato è in discussione un ddl (già approvato alla Camera lo scorso 17 Ottobre) che propone l’annullamento della pena detentiva per il reato di diffamazione a mezzo stampa e la riduzione del periodo-finestra (da 5 a 2 anni) dalla data di pubblicazione del contenuto diffamante, per esporre querela. «Credo che il lavoro del Senato non proceda speditamente come sarebbe necessario». Dice però per Lumsanews l’on. Walter Verini, capogruppo nella commissione Giustizia del Pd, che aveva presentato, con l’altro capogruppo del Pdl, Enrico Costa, il provvedimento alla Camera. E nel frattempo numerosi giornalisti, alcuni anche noti, sono raggiunti dalla spada di Damocle della querela per diffamazione e condannati, tutt’oggi, al carcere. Alcuni (fortunati o chissà?) dribblano il carcere attraverso la grazia, concessa per la verità raramente dal presidente della Repubblica. Altri (garantiti o semplicemente impavidi guerrieri) si affidano a tutti i gradi di giudizio offerti dalla giustizia italiana.
E negli ultimi mesi in più occasioni la giurisprudenza ha anticipato il legislatore ordinario. Ad esempio la recente sentenza del 13 marzo della Corte di Cassazione che ha annullato la pena detentiva in un caso di omesso controllo per il direttore de “La Voce di Romagna”: «questi episodi confermano la sofferenza del sistema e l’urgenza di riforme e semplificazione», dice ancora Verini. Un altro caso è quello del Consiglio di Stato, che ha bocciato la mediazione civile obbligatoria (anche per i casi di diffamazione, nei quali poteva fungere da deterrente per le cosiddette “liti temerarie”), accogliendo l’appello dell’Organismo Unitario dell’Avvocatura che aveva definito la reintroduzione della mediazione civile (avvenuta con il celebre decreto del fare dell’ex governo Letta) «in stridente contrasto con il principio di accesso libero alla giustizia». La riflessione potrebbe essere se in alcuni casi di diffamazione ci sia però un “eccesso” di accesso libero alla giustizia.
Stuzzicato poi riguardo le responsabilità della categoria dei giornalisti su questa battaglia, l’On. Verini, anche lui giornalista professionista, parla di una «diffusa situazione di conflitti d’interesse: la drammatica crisi editoriale della stampa italiana ha portato in questi anni la stessa categoria giornalistica a privilegiare (forse inevitabilmente?) le battaglie per la difesa dell’occupazione, per la tutela dei diritti spesso violati da forme di precariato inaccettabile e spesso “ricattatorio”. Dico “privilegiare” – conclude Verini – rispetto a battaglie più generali (legate anche al rispetto dei contenuti delle Carta dei Doveri) legate ai principi della libertà di informazione, alla tutela della libertà di espressione».
E mentre si privilegiano battaglie occupazionali (perse in partenza?) a discapito della libertà personale e dei diritti, ancora sentenze di carcere: ai microfoni di Lumsanews il direttore di Panorama Giorgio Mulè, condannato al carcere per omesso controllo su un articolo (“Aridatece Caselli”) di due suoi collaboratori, Riccardo Arena e Andrea Marcenaro.
Mulè lamenta l’ignavia della categoria (qui il link per l’intervista radio), che non sente viva la battaglia sulla diffamazione, la lentezza dell’iter legislativo del ddl in discussione al Senato (che sarebbe fermo, in attesa del parere della Commissione Bilancio!) e soprattutto l’imprecisione di alcuni giornalisti disattenti che pubblicano a caratteri cubitali, addirittura in “sacre scritture” dell’informazione come il Corriere della Sera:”Mulè condannato per diffamazione”, confondendo omesso controllo con diffamazione tout court.
Imprecisioni o gaffe nelle quali si incapperebbe meno se ci fossero degli istituti che vigilino sulla buona informazione. Per chi ha a che fare con il giornalismo non è un déjà-vu: la carta dei doveri del ’93 aveva previsto l’istituzione del Comitato nazionale per la lealtà e la correttezza dell’informazione, composto da cinque membri, e di un Giurì, che avrebbero dovuto vigilare e sanzionare le violazioni. Ma all’istituzione ufficiale del comitato non è mai stata data un’applicazione pratica. Secondo Paolo Butturini, segretario dell’Asr, questa mancata istituzione è tra le responsabilità che la categoria si deve addossare per la lentezza del riconoscimento legislativo di certi diritti.
Infine la testimonianza di Arena (Presidente dell’Odg di Sicilia): «I giornalisti sono un presidio di democrazia. Non si può colpirne uno per fermarne cento». Vallo a dire al procuratore generale di Catania Elvira Tafuri, che ha condannato Franceso Gangemi, 79 anni, al carcere per un caso di diffamazione sul mensile “il Dibattito”, di cui è direttore. Sarà pure recidivo Gangemi, e probabilmente verrà affidato ai servizi sociali. Ma anche fra gli ottuagenari ci sono figli e figliastri, a quanto pare.
Nicola Maria Stacchietti