Nessuno come lei. Poche persone hanno inciso così duramente sul tessuto sociale della Gran Bretagna come Margaret Thatcher, mito del liberismo mondiale e prima donna premier del Regno Unito, alla guida del paese ininterrottamente dal 1979 al 1990. Questa donna del Lincolnshire, salita nel 1975, da outsider e senza visibili punti di appoggio nell’estabilishment politico né in quello socio-culturale, alla guida del partito conservatore (i Tories, ndr) prima, e al governo quattro anni più tardi, ha cambiato profondamente il pensiero politico, sociale ed economico del suo tempo.Ma non solo. L’eredità politica della Thatcher è sopravvissuta, anzi per certi versi si è pienamente realizzata, solo diverso tempo dopo la sua uscita di scena, silurata non dai suoi strenui avversari storici – la sinistra laburista e la classe operaia sindacalizzata inglese – ma da un colpo di mano del suo stesso partito, preoccupato per l’atteggiamento intransigente tenuto dalla “Iron lady” nei confronti del malcontento sociale e del processo di integrazione europeo. Un’eredità pesantissima, la sua: paradigma di quella rivoluzione in senso liberista che ha chiuso i conti con la cultura keynesiana e l’intervento attivo dello Stato nell’attività economica. Ronald Reagan fu suo profondo amico e ammiratore. Durante gli anni della sua presidenza fu un appassionato rappresentante delle ricette politiche ed economiche Thatcheriane. Eppure gli effetti immediati della cura da cavallo somministrata dalla Thatcher ad un economia, come quella britannica della metà degli anni ’70, già in pesante crisi, furono devastanti: nel giro di due anni, l’inflazione, già al 10 per cento sotto i laburisti, raggiunse il 20 per cento. Nello stesso periodo la disoccupazione triplicò, arrivando a tre milioni di unità. “Nessuno nel mondo occidentale – ha scritto il giornalista William Ward – aveva mai osato abbandonare così radicalmente il dogma keynesiano della piena occupazione”. Amata e odiata più di qualsiasi altro politico britannico del ‘900, oggi come allora, nonostante il tributo unanime reso da tutta l’elite politica inglese, il paese appare diviso sull’eredità lasciata dalla “lady di ferro”. “È il giorno più bello della mia vita” ha dichiarato ieri il più importante leader del sindacato dei minatori, per anni accanito avversario delle riforme avviate dalla Tatcher.
Ne abbiamo parlato con Leonardo Maisano, corrispondente da Londra del Sole 240re.
Qual è l’eredità politica lasciata da Margaret Thatcher?
Sicuramente un’eredità controversa. Basta vederlo dalle dichiarazioni seguite all’annuncio della sua morte. La Tatcher ha profondamente diviso questo paese, creando una frattura sociale che non si è ancora sanata.
Perché?
La Thatcher ha letteralmente venduto lo stato. Un cambiamento radicale che ha modificato l’assetto socio-economico del paese. In breve tempo, una parte importantissima dell’industria pubblica britannica finì nelle mani dei privati. Ma non solo: la liberalizzazione dei mercati finanziari, con il cosiddetto big ben della City (il distretto finanziario londinese, ndr), ha lanciato i servizi finanziari come l’industria del futuro. Settore che, non a caso, oggi rappresenta il 10 per cento del Prodotto interno lordo inglese. Senz’altro lo sviluppo più significativo che la lady di ferro ha dato alla struttura economica. Ma questo ha avuto un contraccolpo forte.
In campo economico?
Soprattutto, ma non solo. L’industria manifatturiera britannica è andata progressivamente calando a favore dei servizi finanziari, con ricadute pesanti sull’occupazione. Tutto questo ha creato una vera rivoluzione sociale. L’idea Thatcheriana di avere un corpo di piccoli azionisti proprietari, la cosiddetta “shareholders democracy”, come lei amava chiamarla, numericamente superiore ai sindacati, ha vinto. Le iscrizioni alle Trade Unions sono progressivamente diminuite a partire proprio dalla metà degli anni ’70, fino alla metà degli anni ’90, attestandosi poi a livelli molto bassi rispetto agli altri paesi. La centralità delle attività finanziarie, anche nella vita di tutti i giorni dei cittadini inglesi è ormai un elemento preponderante della società inglese.
Quali sono stati i più forti oppositori delle riforme Thatcheriane?
Sicuramente la sinistra e i sindacati. E non poteva essere altrimenti, visto che il prezzo sociale di quelle politiche è stato molto alto, con milioni di disoccupati. Eppure quelle riforme hanno scardinato la struttura politica della sinistra, costringendo lo stesso partito laburista ad un forte ripensamento delle proprie idee economiche. Io credo che senza il Thatcherismo il “New Labour” di Tony Blair non sarebbe mai nato.
Eppure ieri alcuni leader sindacali hanno gioito alla notizia della morte.
Non c’è da stupirsi. La Tatcher ha commesso molti errori. Che però nessuno ha mai corretto.
Nel senso che non si è mai tornati indietro, nonostante il cambio politico alla guida del paese?
Certo. Nessuno ha davvero attenuato gli effetti più acuti delle politiche tatcheriane, nonostante siano passati oltre trent’anni dal sua uscita di scena dalla vita pubblica del paese.
Romano Prodi ha scritto che la Tatcher e Reagan hanno di fatto preparato la crisi economica attuale.
In parte è vero. La centralità della finanza sull’economia reale ha in effetti preso il sopravvento soprattutto a partire dal Thatcherismo e dalla Reaganomics. Ma anche qui vale lo stesso discorso. La Thatcher ha smesso di governare nel 1990, quando la crisi è scoppiata erano passati più di 20 anni, nessuno ha affrontato gli squilibri creati dalle sue riforme. Il progressivo allontanamento dello stato dalla vita economica e sociale dei cittadini inglesi rimane la sua eredità più grande.
Ancora oggi?
Certo. Anche perchè la spesa pubblica inglese negli anni della Tatcher non è mai calata eccessivamente, rimanendo intorno al 40 per cento del Pil, quindi su livelli sostenuti. Questo dimostra che c’è stato un cambiamento negli indirizzi di spesa ma non uno smantellamento dello stato sociale.