“Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo”.
Dall’ultima lettera di Aldo Moro, indirizzata alla moglie Eleonora, recapitata il 5 maggio 1978
16 marzo 1978. Il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro esce di casa, poco prima delle nove. Il sole è già alto. Per lui è un giorno fondamentale. A Montecitorio, dove è diretto, deve presiedere l’insediamento del quarto governo Andreotti che, per la prima volta dalla fine dell’unità nazionale nel 1947, avrà il sostegno del Pci. È l’apice del progetto che ha la firma del leader della Dc: dare il via a una nuova stagione di riforme, a una nuova fase di progresso portata avanti in maniera concertata dalle forze democratiche del Paese. L’Italia è scossa da fortissime tensioni sociali. Al terrorismo nero e stragista dei primi anni ’70 si è affiancato quello rosso, che uccide magistrati, poliziotti, giornalisti e combatte la linea del Partito Comunista italiano.
Quella mattina Moro si prepara a concretizzare il compromesso storico: una modernizzazione dell’Italia, con un forte impianto sociale, da realizzare in collaborazione con il partito guidato da Berlinguer. Ricucendo lo strappo consumatosi nel 1947, che aveva sancito l’entrata a forza delle dinamiche della Guerra Fredda nell’Italia appena uscita dal conflitto mondiale.
Un progetto osteggiato dal più potente referente internazionale dell’Europa occidentale, gli Stati Uniti, impauriti dall’ipotesi che il Pci al governo costituisca un vantaggio per la possibile ingerenza dell’Unione Sovietica in un paese strategicamente fondamentale verso l’area del Mediterraneo, creando un problema serio alla Nato. Aldo Moro però va avanti. Anche a costo di scontrarsi con i vertici statunitensi e, secondo i testimoni del tempo, di essere minacciato dal segretario di Stato Henry Kissinger. Perché gli americani, dice Moro in quegli anni (lo ricorda Corrado Guerzoni, collaboratore e portavoce del presidente), considerano l’Italia un paese a sovranità limitata.
Quella mattina del 16 marzo 1978 Moro sale in macchina, dà forse un ultimo sguardo al portone di casa. Non sa che non vi farà mai più ritorno. Pochi minuti dopo, a via Fani, si scatena l’inferno. Quando le armi automatiche tacciono, sull’asfalto restano gli uomini della scorta: Domenico Ricci, carabiniere e autista di fiducia di Moro; Giulio Rivera, Raffaele Iozzino, Francesco Zizzi e Oreste Leopardi. È un massacro. Il presidente viene rapito, portato via verso il nascondiglio che diventa la sua prigione.
Il 9 maggio il suo corpo senza vita verrà ritrovato in una Renault 4 rossa, in via Caetani. Nel pieno centro di Roma, a metà strada tra la sede della Democrazia Cristiana di piazza del Gesù e il quartier generale del Pci di via delle Botteghe Oscure, tra Piazza Venezia e largo Argentina. Non è un luogo scelto a caso: è il simbolo lugubre del destino del compromesso storico.
Sono passati quarant’anni da quei 55 giorni che hanno trasformato per sempre la storia dell’Italia repubblicana. La versione ufficiale degli accadimenti che circoscrive alle Brigate Rosse l’intera vicenda comincia a cedere, sotto i colpi delle rivelazioni che emergono poco a poco con la desecretazione dei documenti riservati: carte scottanti, finora coperte dal segreto di Stato, messe a disposizione della Commissione Bicamerale d’Inchiesta dal governo Renzi. Che parlano di una verità completamente diversa da quella del manipolo di brigatisti che tiene in scacco l’intera nazione.
Le vecchie e nuove prove raccolte dalla Commissione mettono in discussione che a compiere l’azione di guerra in via Fani, con la scorta massacrata in poco più di 90 secondi e il presidente Moro illeso sotto una grandine di proiettili, siano stati solo Mario Moretti, Valerio Morucci, Barbara Balzerani e gli altri brigatisti, condannati in sede processuale. Privi – per loro stessa ammissione – di competenza militare o balistica.
Il quadro delineato dalla relazione finale della Commissione presieduta da Giuseppe Fioroni è scioccante. Di quanto abbiamo saputo finora, alla luce dei nuovi elementi, non c’è quasi nulla di vero. A partire dalla prigione di Moro, che non sarebbe stata affatto in via Montalcini, dall’altra parte di Roma, ma a pochi isolati dal luogo dell’eccidio: in un appartamento di proprietà dello Ior, la banca vaticana diretta da Paul Marcinkus, in via Massimi 91. Nello stesso edificio le indagini effettuate dai carabinieri per conto della Commissione hanno appurato che aveva sede la Tumco, compagnia americana che lavorava per la Nato e che “svolgeva – si legge nella relazione – attività di intelligence per conto dei servizi statunitensi”. Sempre in questo edificio sarebbe stato ospitato nell’autunno 1978 il luogotenente delle Br, Prospero Gallinari.
Perfino la ricostruzione degli ultimi istanti di vita del presidente della Dc finora accettata, basata sui racconti dei brigatisti, non regge al vaglio delle nuove prove raccolte dai carabinieri del Ris, il Reparto Investigazioni Scientifiche. Che hanno condotto nuove verifiche sul pianale del bagagliaio della Renault 4, e hanno stabilito che lo statista non venne affatto ucciso all’interno del garage di via Montalcini.
Ma non è tutto. Le indagini della Commissione hanno accertato “senza più alcun dubbio”, si legge nel testo della relazione finale, “la presenza di persone legate alla P2 inserite nei Comitati di crisi istituiti presso il Ministero dell’interno, nei vertici dei Servizi e delle Forze di Polizia, nella Magistratura”. Personaggi che agiscono in maniera determinante nel dare alla vicenda il corso più infausto, perfettamente integrati al vertice dei processi decisionali.
Sulle gravi responsabilità dello Stato, durante i 55 giorni del rapimento, la Commissione Moro è esplicita: “Appare evidente il permanere in queste sedi di appartenenti a strutture che, come evidenziato dal lavoro delle Commissione Stragi, rispondevano a plurime fedeltà”. E risulta altrettanto provata, grazie ai documenti desecretati, l’infiltrazione da parte di uomini dei servizi segreti nel gruppo di comando delle Brigate Rosse, a partire già dai primi anni Settanta.
Quello che c’è di certo, a quarant’anni dall’assassinio di uno dei padri della Repubblica, al di là di ogni ragionevole dubbio, è che il rapimento e l’uccisione del più grande statista italiano “non appaiono affatto come una pagina puramente interna dell’eversione di sinistra, ma acquisiscono una rilevante dimensione internazionale”.