“Poteri economici sovranazionali, tendono a prevalere e a imporsi, aggirando il processo democratico”. Non sono parole di circoli complottisti, ma è un passaggio del discorso di Sergio Mattarella nel giorno del suo giuramento come presidente della Repubblica. Il riferimento, per molti osservatori, è soprattutto – ma non solo – alle grandi multinazionali tecnologiche, che hanno ormai assunto un ruolo dominante sulla scena globale, tanto che in alcuni casi scavalcano le rappresentanze politiche. Per Ernesto Belisario, avvocato ed esperto di diritto tecnologico, le cosiddette Big Tech “rispetto a quando sono nate hanno acquisito un’importanza nella vita delle persone e nelle dinamiche sociali impensate dai loro stessi fondatori”.
Nell’anno fiscale del 2021, secondo Analisi Corporate, Apple ha avuto ricavi per 365,8 miliardi di dollari mentre il gruppo Meta, di Mark Zuckerberg che include Facebook, Instagram, Whatsapp e Messenger, ha toccato quota 117,9 miliardi di dollari. Per Amazon, nello stesso periodo, i ricavi annuali sono stati poco meno di 470 miliardi e per Microsoft 168. Per capire ancora di più la potenza di questi attori, vale la pena evidenziare il loro valore di capitalizzazione in Borsa: Apple a gennaio è stata la prima società a superare i 3.000 miliardi, per Alphabet, il gruppo di Google, si parla di circa 1.850 miliardi di dollari. Più o meno uguale al Pil annuo di un Paese come l’Italia.
Non sorprende quindi il loro peso nel mondo e nella politica interna ed esterna dei Paesi di provenienza. L’economista e storico Giulio Sapelli descrive il quadro non nuovo di “un’egemonia dei grandi gruppi finanziari e industriali che esercitano non solo sulle persone ma anche sugli Stati”. Ma se è vero che sono società multinazionali, il rapporto che le principali Big Tech hanno con gli Stati Uniti è fortissimo. Il politologo Lorenzo Castellani parla di “collaborazione osmotica” per definire il legame che esse hanno con l’amministrazione americana: “La storia insegna come gli Usa abbiano usato i loro colossi come braccio esterno per gestire le questioni diplomatiche. Per loro le Big Tech sono uno strumento di forza”. Un rapporto, invece spesso conflittuale con gli altri Paesi, occidentali e non. Nelle controversie, soprattutto con i membri dell’Unione europea, regna la questione del trattamento dei dati gestiti dalle grandi aziende. Peraltro è il vero potere che detengono perché “le loro formule di successo, gli algoritmi, sono coperte da segreto industriale. Guadagnano e sfruttano i dati prodotti dalle persone, non dal lavoro” sottolinea Castellani.
L’Unione vuole regolamentare l’ambito digitale a livello globale, per superare il differente approccio adottato dagli Stati Uniti che hanno lasciato più libertà a questi attori. Bruxelles, invece, cerca di mettere al primo posto le libertà della persona. E non si tratta solo dei dati, ma anche delle regole dell’antitrust, sulla tassazione e sulle pratiche sleali nei Paesi europei. È un modo per proteggere i singoli consumatori, ma soprattutto gli interessi economici e politici dell’Ue. In alcuni casi ha avuto successo, come con il Gdpr (General Data Protection Regulation) del 2016, la normativa sulla protezione dei dati personali, spiega Belisario: “L’Ue non solo è riuscita a darsi delle regole ma attraverso le autorità garanti le ha applicate in modo che fungano da deterrente”. Inoltre una nuova misura potrebbe essere adottata a breve. In discussione in questi mesi c’è la proposta della Commissione Ue del Digital Services Act (Dsa) che, basandosi sui valori europei, vuole proteggere i consumatori, rendere i mercati digitali più equi e rendere più trasparenti gli algoritmi. Il Dsa ha l’obiettivo di sorvegliare in particolare su quelle piattaforme online che raggiungono più del 10% della popolazione dell’Ue.
Le velleità politiche europee si scontrano con l’ostruzionismo delle Big Tech, con dietro gli Stati Uniti. Per Sapelli il conflitto tra politica e tecnocrazia “è impari. Le democrazie territoriali, come i parlamenti, non riescono a stare al passo”. Si scontrano con immense piattaforme “che lavorano con i big data, che processano informazioni, anticipano gli eventi e influenzano il mondo con i social network”. “La colpa – chiarisce Sapelli – è anche dell’ignoranza e dell’incapacità delle classi politiche e dirigenziali” che su questo fronte non sono preparate.
Il rischio, come ricordato da Mattarella, è la sconfitta della democrazia ai danni di una tecnocrazia emergente. L’impatto dirompente di queste Big Tech, infatti, ha conseguenze dirette anche nel mondo dell’informazione e della libertà d’espressione. Il ban di Donald Trump, ex presidente degli Stati Uniti, dal mondo dei principali social come Facebook, Instagram e Twitter è emblematico. Per Belisario, dopo la vicenda di Capitol Hill, “la necessità di regole si è affermata anche negli Stati Uniti”. Nella sentenza che decise il blocco per l’ex inquilino della Casa Bianca, lo stesso board di Facebook ammise il bisogno di criteri definiti esternamente.
Perché la decisione di silenziare il profilo di un politico o di chi non usa un determinato linguaggio “è un esercizio di un potere poliziesco, magari privato ma con un impatto pubblico enorme” sostiene Castellani, che sottolinea come a tali aziende “bisogna fargli accettare o la condizione di piattaforma neutra, su cui può accadere di tutto, oppure di piattaforme editoriali, quindi accessibili solo a ospiti e invitati”. Una scelta che favorirebbe la rottura dei monopoli e oligopoli rappresentati dalle Big Tech, che nel corso del tempo hanno assorbito e acquisito tutte le società concorrenti.
L’alternativa, per Castellani, “è non permettere più casi Zuckerberg. Costringerlo a cedere dei pezzi o per esempio a non costruire una società unica che progetti il metaverso”. Un’ipotesi che però potrebbe cozzare con gli interessi strategici Usa, visto che il rischio di perdita di competitività e di subire la concorrenza cinese è forte. Per questo il politologo non crede a “misure particolarmente distruttive di questi monopoli”. A ogni modo, Belisario ipotizza un superamento dell’autoregolamentazione, con “l’Unione europea che ha deciso di riacquisire il ruolo da protagonista”. Tempi e maniere, però, sono ancora incerti.