Agrigento, 17 settembre 2019. Un gruppo di 25 migranti sbarca sulla spiaggia di San Leone, senza alcuna segnalazione di soccorso, e si allontana velocemente per far perdere le proprie tracce. È questo un caso paradigmatico di come i trafficanti di uomini abbiano cambiato metodo e rotte di navigazione, utilizzando ora i barchini, in partenza dalle spiagge tra Tunisia e Libia, per raggiungere in breve tempo le coste italiane senza essere intercettati.
La sfida per la nuova maggioranza giallorossa è dunque quella di adottare strategie diverse per fronteggiare un fenomeno che tende a rinnovarsi, adeguandosi sempre alle contingenze. Passare dal trasportare il maggior numero possibile di persone in poche imbarcazioni al condurne di meno, in piccoli mezzi di fortuna, è stata infatti per gli scafisti una necessità dettata dalla politica dei “porti chiusi” intrapresa dal precedente esecutivo.
La logica seguita dai trafficanti di esseri umani era infatti quella di massimizzare i profitti, riempiendo fino al limite navi fatiscenti, sapendo che a poche miglia dalla costa libica operavano imbarcazioni delle Ong pronte a soccorrere in mare le eventuali vittime di naufragio. Nel momento in cui però l’ex ministro dell’Interno leghista, Matteo Salvini, ha deciso di intraprendere la linea dura contro queste associazioni, non concedendo, spesso in accordo con il ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli, un porto per attraccare, è diventato meno conveniente adottare questa strategia.
Il nuovo governo, distanziandosi dalla condotta salviniana, ritenuta soprattutto dal Partito Democratico sovranista, demagogica, propagandistica e poco efficace per quanto riguarda i rimpatri degli immigrati irregolari, ha presentato un decreto (LINK) che ha l’obiettivo di regolare in maniera più strutturale il fenomeno dei flussi migratori.
L’iniziativa, promossa dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio, congiuntamente con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, individua proprio nel tema dei rimpatri il nodo cruciale su cui concentrarsi. Nel decreto è stata stilata infatti una lista di 13 paesi considerati sicuri, i cui cittadini per entrare nel territorio italiano come rifugiati, devono presentare una documentazione che attesti la loro condizione di perseguitati. Questo procedimento porterebbe a quattro mesi i tempi necessari per la verifica di ogni richiesta di asilo politico, dai due anni finora necessari. L’onere della prova, infatti, spetterebbe al rifugiato e non più allo Stato di prima accoglienza.
Risulta invece più nebulosa la situazione che riguarda gli accordi bilaterali tra l’Italia e i paesi di provenienza degli immigrati irregolari. Secondo Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr, l’Alto commissariato per i diritti umani “il decreto non avrà alcun impatto sui rimpatri, perché gli stessi paesi da cui provengono i migranti sono riluttanti a farli rientrare in patria e lo Stato Italiano non può ricondurceli unilateralmente”.
Il governo italiano, nel cercare di arginare il problema dei flussi migratori, sperava di ottenere la sponda da parte dell’Unione europea. Speranza fondata anche sul fatto che la nuova maggioranza, con il partito democratico che ha sostituito la Lega all’esecutivo, godesse di maggiore credito presso le istituzioni europee, finora fredde a causa dell’euroscetticismo del Carroccio. L’accordo raggiunto a La Valletta il 23 settembre scorso sembrava andare in questa direzione; i partecipanti infatti, – i ministri dell’Interno di Malta, Italia, Francia e Germania, – si erano impegnati a rispettare un piano di redistribuzione più equa dei migranti su scala europea.
Nello specifico era prevista l’attivazione di un sistema accelerato per il ricollocamento dei migranti salvati in mare sulla base di impegni prestabiliti prima dello sbarco. L’adesione a tale meccanismo da parte dei paesi dell’Ue è però volontaria e già questo lasciava intravedere una certa difficoltà attuativa. Ad oggi infatti, sono solamente tre i paesi che si sono impegnati a rispettare l’accordo: Portogallo, Irlanda e Lussemburgo.
“A distanza di venti giorni dall’accordo di Malta, la reale efficacia è già in discussione”, commenta Oliviero Forti, responsabile per le politiche migratorie e la protezione internazionale di Caritas italiana, in un’intervista a Lumsanews. “È stato presentato come la soluzione di tutti i mali che riguardano i migranti, ma ha più le caratteristiche di uno spot che della effettiva volontà strategica di affrontare il tema ad ampio respiro”, ha spiegato Forti.
Al di là delle normative italiane e degli accordi europei, analizzando nello specifico i numeri che riguardano gli sbarchi sulle coste del nostro Paese, ci accorgiamo che, dopo il picco raggiunto nel 2017 con l’arrivo di 108mila migranti, si è registrato un calo del 92% nel 2018 con 21mila sbarchi, trend confermato anche nel 2019. All’11 ottobre sono 8mila gli arrivi stimati dal ministero dell’Interno.
L’inversione di tendenza è attribuibile principalmente agli accordi siglati dall’allora titolare del Viminale Marco Minniti con le autorità libiche con l’intento di ridurre le partenze dal paese nordafricano. I dati dimostrano come anche la linea dura portata avanti dall’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, abbia avuto un’incidenza sui numeri del 2019.
Di pari passo con l’analisi dei flussi migratori, si è sempre cercato di verificare quale incidenza potessero avere gli immigrati sul numero dei reati commessi nel nostro territorio. La tematica della sicurezza è spesso stata cavalcata in campagna elettorale per incrementare i consensi, in maniera particolare dai partiti di destra, e i riscontri in termini di voti ci sono stati. Al di là però delle percezioni, più o meno veicolate, c’è un’oggettività dei numeri che mette qualsiasi legislatore di fronte alle proprie responsabilità.
Secondo un dato fornito dal capo della polizia, Franco Gabrielli, negli ultimi 3 anni c’è stato infatti un aumento di circa il 3% dei reati commessi da cittadini stranieri, in controtendenza invece con la diminuzione generale dei crimini. Nel 2016, su 893mila persone denunciate e arrestate, il 29,2% degli stranieri erano coinvolti; nel 2017 la percentuale è salita al 29,8%, e ad oggi arriva al 32%. Numeri su cui probabilmente bisognerebbe riflettere, intervenendo in maniera seria e non ideologica, anche per non lasciare più il terreno fertile alla propaganda xenofoba che sta avvelenando il dibattito sul tema in Italia.