Più di 60 mila mussulmani dell’etnia Rohingya sono scappati dal Myanmar (ex Birmania) nelle ultime settimane. Chi è riuscito a fuggire nei paesi confinanti ha parlato di violenze sistematiche dell’esercito birmano, di stupri di massa e uccisioni ingiustificate di civili, furti nelle abitazioni e dell’incendio di interi villaggi. In Rakhine vive quasi un milione di rohingya. Le istituzioni tradizionalmente non li considerano birmani buddisti ma bengalesi musulmani, arrivati con la colonizzazione britannica. Non gli sono riconosciuti i diritti fondamentali: nemmeno la cittadinanza o il diritto alla proprietà privata. Non possono muoversi liberamente nel paese e non possono avere più di due figli. La minoranza mussulmana del paese parla di una situazione divenuta ormai un genocidio e pulizia etnica.
Il governo del Myanmar smentisce, e lo fa con la voce della politica democratica birmana: l’ex dissidente, premio Nobel per la pace e attuale ministro degli esteri Auung San Suu Kyi. Il suo partito la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) è al governo nel paese ma ha dichiarato ufficialmente la sua estraneità alla faccenda. Estraneità che non convince però le Nazioni Unite che ieri ha inviato sul confine tra Bangladesh e Myanmar un suo osservatore per i diritti umani, la coreana Yanghee Lee. Le istituzioni internazionali però rimangono scettiche sulla possibilità che Lee possa raggiungere liberamente le zone dove avvengono le repressioni. In passato la donna era già stata oggetto di minacce per aver criticato la leadership del NLD e soprattutto per aver criticato l’atteggiamento xenofobo del 969 Movement, una formazione di estrema destra vicina alle posizioni più intransigenti del mondo buddista, e del suo leader, il monaco Ashin Wirathu, che dopo aver lottato per la libertà del paese si sta occupando delle minoranze religiose del paese e della condizione della donna.
Il flusso migratorio generato da questa situazione sta diventando una tragedia: molti disperati si stanno ammassando ai confini dei paesi mussulmani dell’area. Il corpo del piccolo Mohammed Shohayet prono nel fango e la voce di suo padre Alan Kurdi sono il simbolo di questa tragedia.