Ad accompagnare i migranti durante i loro viaggi, spesso difficili e pericolosi, è il sogno di una vita migliore, che rischia di infrangersi non appena arrivano in Italia. Il naufragio del loro sogno migratorio è l’inizio, talvolta, di una devianza sociale che li porta ad intraprendere comportamenti illegali pur di sopravvivere. Ad approfondire il tema per LumsaNews è Oliviero Forti, responsabile dell’Ufficio Politiche Migratorie e Protezione Internazionale di Caritas Italiana.
Sulla base della sua esperienza c’è un rapporto tra la mancata integrazione degli immigrati che arrivano in Italia e un’eventuale tendenza a mettere in atto condotte illegali?
“Si, assolutamente. Sia i dati che l’esperienza confermano che la mancata integrazione sociale, l’assenza di un alloggio adeguato, dinamiche di forte discriminazione sul posto di lavoro – nel quale o si è rifiutati o si è costretti ad accettare lavori sottopagati o, talvolta, in condizioni di semi schiavitù – portano queste persone a reagire, finendo spesso nel penale. In assenza di una cornice sociale in grado di proteggere queste persone, coloro che delinquono, quantomeno per le fattispecie penali più comuni, lo fanno perché provengono da ambienti degradati dal punto di vista materiale”.
L’integrazione è, dunque, un passaggio cruciale per tentare di prevenire queste condotte.
“L’integrazione è un tema cruciale anche se purtroppo sempre più marginalizzato nel dibattito politico. Ci si concentra sempre sul tema dell’emergenza dell’ultima ora, ma la vera tematica è come creare le precondizioni affinché queste persone, una volta giunte in Italia, possano trovare un sistema in grado di accoglierle, anche quando entrano nel Paese in modo irregolare. Coloro che arrivano sapendo che andranno verso il Nord Europa, in Paesi in cui lo stato sociale è molto forte, si integrano meglio e tendono a delinquere di meno. In Italia manca una prima accoglienza, mancano gli investimenti in questo senso e le conseguenze si vedono tutti i giorni.”
A cosa può portare l’assenza di una buona prima accoglienza?
“Non accoglierli significa portarli a compiere reati minori, la cui causa, spesso, non è altro che la povertà. Queste persone, nella maggior parte dei casi, non delinquono perché vogliono arricchirsi, ma solo perché si trovano in una condizione di marginalità e cercano degli espedienti per sopravvivere. Lo Stato dovrebbe investire in questo senso. Non farlo, sul lungo termine, ha un costo economico anche maggiore.”
Quali?
“Se ne parla poco, ma, per esempio, l’allungamento dei tempi della detenzione amministrativa nei CPR ha dei costi molto elevati. Per evitarli bisogna trovare delle soluzioni rapide e funzionali. Riportarli nei Paesi d’origine non è una soluzione percorribile. L’unica soluzione praticabile è investire nell’integrazione, costruendo reti sociali e comunitarie, come fanno da tempo la Caritas e tante altre realtà del terzo settore. Ci sono tante esperienze in atto da anni che funzionano, ma sono isolate, non istituzionalizzate e, per questo, non fanno sistema”.
Quale sarebbe, secondo lei, il modo corretto di procedere?
“Il modello dell’accoglienza deve essere diffuso sul territorio, non si può concentrare nei grandi centri, in cui i rischi di conflittualità e di devianza sociale sono maggiori. Mi fa paura quando sento parlare di accogliere i migranti in grandi caserme dismesse, perché in passato abbiamo visto che mettere insieme persone provate da un lungo viaggio e non sempre disposte a mediare può creare diversi problemi. L’accoglienza diffusa permette un maggior controllo sociale: gli immigrati, nella maggior parte dei casi, sono conosciuti e sostenuti dalla comunità in cui vivono.”
Quanto è difficile, invece, la reintegrazione di un detenuto straniero nella società civile dopo che ha finito di scontare la sua pena?
“La reintegrazione di un detenuto nella società civile è sempre problematica, ma rispetto a un detenuto straniero, un detenuto italiano ha sempre un vantaggio: la presenza familiare sul territorio, che, nella maggior parte dei casi, costituisce una rete di protezione. Lo straniero, la maggior parte delle volte, si trova da solo. Per questo motivo – e questo aspetto merita di essere sottolineato – si tende a favorire la migrazione familiare piuttosto che la migrazione di uomini soli. L’uomo straniero solo è quello più rappresentato tra la popolazione carceraria. Quando si hanno una famiglia o dei figli, si tendono ad evitare maggiormente condotte potenzialmente pericolose.”