Datagate, un anno dopo. Cosa è cambiato nell’informazione mondiale dopo il ciclone prodotto dalle rivelazioni dell’ex analista dei servizi segreti americani Edward Snowden? Non molto, ammettono sconsolati al Festival Internazionale di Perugia James Ball, giornalista del Guardian, il giornale inglese che per primo pubblicò le informazioni riservate trafugate al Pentagono; Dan Gillmor, pioniere del giornalismo “dal basso” e ora docente presso la scuola di giornalismo ‘Walter Cronkite’ dell’Università dell’Arizona; Andy Carvin, di First Look Media; Jillian York, attivista dell’Electronic Frontier Foundation, che nel 2006 denunciò per prima la potente National Security Agency (NSA) per violazione della privacy; e Carola Frediani, co-fondatrice dell’agenzia indipendente F5, specializzata in nuove tecnologie.
Abolita la direttiva UE. Il progresso principale è arrivato dalla Corte di giustizia europea, che ai primi di aprile ha dichiarato illegittima la direttiva che imponeva la registrazione di tutti i dati per un periodo compreso tra 6 mesi e 2 anni, senza neppure imporre l’obbligo della loro conservazione all’interno della Ue. Più difficile sta risultando invece «convincere le persone, e perfino la maggior parte dei giornalisti – ha aggiunto Jillian York – a proteggere la propria privacy con strumenti adeguati, e addirittura a biasimare davvero l’operazione dei nostri Governi, che invocano il “diritto” di spiare “a fini antiterrorismo” i propri cittadini e si infuriano solo quando vengono a loro volta spiati dagli altri. Nonostante questo, l’uso della crittografia è aumentato, sebbene la NSA fosse riuscita ad attaccare perfino alcuni sistemi cifrati».
Un dibattito pubblico insufficiente. «In quest’ultimo anno ho viaggiato molto per seguire datagate – ha raccontato James Ball – e ho potuto confrontare le reazioni nei vari paesi: nel Regno Unito (ma anche in molte altre realtà europee, tra cui l’Italia) non c’è stato un vero dibattito pubblico di tipo politico: l’unico obiettivo è sembrato quello di attaccare il Guardian e a le sue posizioni libertarie. Al contrario, proprio negli Stati Uniti (ma anche in Germania, Brasile e India) il dibattito è stato di alta qualità», grazie anche alle associazioni che si battono per il riconoscimento, al pari di tutti gli altri, dei nuovi diritti di “cittadinanza digitale”. «Come ha detto l’ideatore della piattaforma world wide web – ha aggiunto Gillmor – Internet deve tornare alle origini: alla rete diffusa, impossibile da bloccare perfino dopo un attacco nucleare; invece da alcuni anni stiamo andando sempre più verso la sua centralizzazione».
Il paradosso americano. «L’eredità del datagate può essere ricompresa in tre filoni principali – ha detto ancora Ball – la sicurezza, con la consapevolezza che non esistono sistemi davvero inespugnabili; la necessità di unire le forze, dato che condividere i dati con altre testate all’estero rende più difficile per i Governi insabbiare tutto; e la censura, che in ogni caso ha colpito duramente il britannico Guardian, tanto da costringerci a lavorare un anno negli Stati Uniti per poter mettere al sicuro dal sequestro una copia dei documenti». Il paradosso infatti è che proprio il Paese che ha cercato inutilmente di arrestare e processare Snowden per spionaggio è quello che meglio garantisce la libertà di stampa, assicurata in modo totale dal Primo e dal Quarto Emendamento alla Costituzione americana, approvati nel lontano 1791. Non risulta che la Cina, seconda nello spionaggio mondiale soltanto agli Stati Uniti, goda di norme simili.
Di Alessandro Testa