Il crollo del Muro di Berlino, con le sue più immediate conseguenze, ovvero la caduta dei regimi comunisti in Europa orientale e la riunificazione tedesca, ebbe un impatto decisivo nell’accelerazione del processo di integrazione europea. Si trattò, infatti, dell’abbattimento di quello che rappresentava, anche materialmente, il simbolo della Guerra fredda e della divisione del Vecchio Continente in due blocchi contrapposti.
Fu un evento di tale rilevanza che finì, però, anche per modificare la direzione e gli equilibri su cui fino a quel momento si era fondata la costruzione comunitaria. Una Germania riunita diventava oggettivamente più forte e i leader europei dell’epoca, su tutti il presidente francese Francçois Mitterrand e il premier italiano Giulio Andreotti, “ritennero che inserirla in una struttura collettiva più coesa avrebbe depotenziato i pericoli di unilateralismo insiti in uno Stato tedesco riunificato”, spiega Giampaolo Malgeri, professore di Storia dell’integrazione europea, intervistato da Lumsanews.
Pensare all’adozione di una moneta comune fu una diretta conseguenza di questa strategia e l’euro, entrato in vigore dopo poco più di un decennio, fu immaginato come un sostitutivo del marco. Una valuta forte e competitiva che servisse a scongiurare il rischio inflazione, spauracchio dei tedeschi da quando, in seguito alla sconfitta subita dopo la prima guerra mondiale, avevano patito le conseguenze devastanti provocate all’economia dalla eccessiva svalutazione della moneta.
L’esito di queste spinte integrazioniste, favorite anche dall’abilità con cui il cancelliere tedesco Helmut Kohl stava gestendo in tempi rapidi il processo di riunificazione, fu il Trattato di Maastricht, ovvero l’atto istitutivo dell’Unione Europea, entrato in vigore il primo novembre del 1993 e firmato dai dodici Paesi membri dell’epoca. I vincoli imposti dalle frontiere e dalle barriere doganali furono superati in favore della libera circolazione di merci e persone, colonna portante del nuovo mercato unico e vennero fissati i parametri economici e le regole politiche necessari per l’ingresso dei vari Stati nella nascente Unione. Un architrave che ha poi mostrato le sue contraddizioni rivelandosi incapace di rispondere alla crisi economica che nel 2008 ha investito l’Europa dopo essersi generata negli Stati Uniti.
La costruzione comunitaria si era infatti basata per circa quarant’anni, da un lato sul suo successo economico – motivo del consenso delle opinioni pubbliche per il progetto europeo, poi affievolitosi con i primi cedimenti – e dall’altro su un equilibrio fra i maggiori Stati membri, che aveva impedito l’emergere di un Paese egemone.
Il rafforzamento progressivo della Germania riunificata, sommato alla riduzione del ruolo della Francia, alla debolezza politica ed economica dell’Italia e all’estraniamento della Gran Bretagna, causa Brexit, hanno invece finito per generare un sostanziale dominio tedesco. Diretta conseguenza di questo dominio è la visione economica rigorista che si è imposta con il tempo nelle Istituzioni europee penalizzando i Paesi strutturalmente più deboli e con economie stagnanti, anche perché fortemente indebitati, come Grecia, Italia, Spagna e Portogallo.
A trent’anni dalla caduta del Muro c’è quindi ancora una “questione tedesca” a condizionare quella costruzione comunitaria che era sorta anche per risolvere definitivamente le contraddizioni nei rapporti fra gli Stati europei che, con la fine della divisione della Germania, sembravano definitivamente superate.
Una Germania a due velocità
Come la riunificazione tedesca ha contribuito a variare gli equilibri alla base dei processi di integrazione comunitaria, così anche all’interno della stessa Germania ha generato contraddizioni ancora irrisolte. Dopo il 9 novembre del 1989 venne attuato, per volontà politica di Helmuth Kohl, un gigantesco piano economico con l’obiettivo di elevare gli standard dei Lander della ex Ddr (Deutsche Demokratische Republik) ai livelli dell’Ovest nel minore tempo possibile.
Come prima iniziativa venne equiparato il cambio del marco dell’Est a quello occidentale, pur avendo un valore molto più basso, e per finanziare la riconversione all’economia capitalista della Germania orientale venne introdotta la Solidaritatszuschlag, una tassa del 5% sul reddito dei cittadini tedeschi. Fu istituita un’agenzia governativa con il compito di sovrintendere la ristrutturazione delle migliaia di imprese di Stato della Ddr, dove lavoravano più di quattro milioni di persone. Vennero poi privatizzati oltre due milioni e mezzo di ettari di terreni agricoli e foreste per poter attuare un grande piano infrastrutturale con l’intento di modernizzare la rete stradale e ferroviaria delle regioni orientali.
Il grande sforzo, portato avanti anche grazie agli investimenti di capitali stranieri – compreso il contributo italiano quantificabile intorno ai 40 miliardi di euro – inizialmente ripagò le attese. In pochi anni infatti il Pil pro capite dell’Est raggiunse l’82% di quello dell’Ovest, partendo dal 45% del 1990, quando fu formalizzata la riunificazione. Anche il valore medio dei salari percepiti nei Lander della ex Repubblica democratica incrementò nettamente. Ci fu però sin da subito una massiccia emigrazione da Est a Ovest che coinvolse circa 2 milioni di persone e che provocò lo spopolamento dei piccoli centri e delle campagne.
A trent’anni dalla caduta del muro, Germania orientale e occidentale viaggiano ancora a due velocità diverse: all’iniziale spinta propulsiva non è seguito l’ulteriore salto di qualità necessario per livellare definitivamente le differenze. Gli indicatori economici di sviluppo sono rimasti fermi agli iniziali successi e da circa quindici anni il processo di convergenza si è interrotto. Le differenze si sono sedimentate e si è cristallizzata una situazione che vede le principali aziende del Paese tutte ad Ovest, ancora il vero motore dell’economia tedesca.
Le minori possibilità e l’inferiorità competitiva ormai strutturale dell’Est hanno generato nella popolazione un senso di frustrazione che si è riflettuto sull’esito delle ultime tornate elettorali. Sia alle Europee dello scorso maggio che alle amministrative tenutesi in Sassonia, Brandeburgo e Turingia, sono aumentati nettamente i consensi del partito di estrema destra Alternative Fur Deutchland, e della Linke, di ispirazione comunista. Hanno perso sostenitori invece le storiche formazioni con cultura di governo, i cristianodemocratici della Cdu e i socialdemocratici dell’Spd, individuate dai cittadini come responsabili degli squilibri irrisolti tra Est e Ovest.
La serietà della situazione e della crisi di rigetto che l’unificazione sta avendo nei Lander orientali, è testimoniata dal fatto che in questi giorni il consiglio comunale di Dresda, capitale della Sassonia e cittadina più colpita dai bombardamenti alleati durante la Seconda guerra mondiale, ha approvato una mozione per denunciare una “emergenza nazismo”. Nel testo viene segnalata “la sempre maggiore frequenza con cui avvengono atti violenti e contro il pluralismo”. Il rischio che il malcontento causato da un’unificazione non completamente compiuta possa alimentare il nazionalismo revanscista tedesco è concreto. Lo stesso germe si è già diffuso, più volte, proprio in Germania, causando guerre e distruzione nel continente europeo e il disfacimento dell’unità territoriale tedesca, culminato con la costruzione del Muro di cui festeggiamo, in questi giorni, il trentesimo anniversario dalla caduta.