Le ultime scosse di ottobre incrinano l’̍«ermo colle» di Leopardi e mettono in pericolo lo stesso manoscritto dell’Infinito che, custodito nel museo di Visso, è stato miracolosamente salvato dopo il crollo. Non solo, si sono sgretolate la cattedrale di San Benedetto a Norcia, la Torre Civica di Amatrice che era sopravvissuta al sisma di agosto. In totale, sono 5000 le segnalazioni di beni danneggiati. Infatti, per patrimonio è da intendersi non soltanto i meri edifici e quindi chiese e musei, ma anche tutti gli oggetti di valore storico-artistico al loro interno. Un patrimonio culturale sotto assedio purtroppo ancora lontano da una corretta tutela. La nostra ‘grande bellezza’ è messa a rischio da una mancata prevenzione e dall’assenza di una logica sistemica d’intervento. Perché si interviene sempre dopo le catastrofi naturali piuttosto che proteggere prima?
«Certe regole troppo vincolanti sono nemiche della necessaria velocità» spiega in un’intervista al Corriere della Sera il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, annunciando, dopo il consiglio straordinario dei ministri tenutosi il primo novembre, la nascita di una sovrintendenza unica speciale. Difatti, la burocrazia italiana rallenta molto i lavori di ricostruzione: dopo il dgls 135/2001 le competenze in materia di restauro spettano a sovrintendenze locali, nonostante lo stato è l’unico che può legiferare sui beni culturali ed eventualmente delegare le regioni. Sono pochissimi invece i passi dedicati alla prevenzione: nel codice Codice dei Beni Culturali del 2004 si legge anche l’importanza della valorizzazione del patrimonio storico-artistico. Nel concreto però valorizzare significa anche tutelare, intervenire preventivamente e salvaguardare l’ingente ricchezza culturale del nostro paese. Invece, sono sempre i piani ex post a richiamare l’attenzione delle autorità. Si preferisce restaurare forse per i concorsi di appalto e i corposi finanziamenti piuttosto che focalizzarsi sull’analisi del rischio sismico territoriale sulla gestione dei monumenti, delle chiese e del paesaggio intesi come un ecosistema artistico unitario da salvare prepotentemente.
Come agire? Anzitutto sarebbe opportuno creare un catalogo dei beni e uscire dalla logica di singoli interventi dopo catastrofi naturali. Bisognerebbe piuttosto pensare ad una manutenzione collettiva che ritrovi nello studio del territorio e delle aree sismiche la ragione fondante di interventi preventivi. Negli anni Settanta, Giovanni Urbani, allora dirigente del ICR (Istituto Centrale del Restauro) aveva creato un Piano Pilota per la conservazione programmata dei beni culturali in Umbria, rimasto inascoltato e mai attuato. Questo rappresenta invece lezione da trarre per il futuro anche alla luce degli ultimi terremoti, dove il salvataggio delle opere appare molto complesso. Si sono attivati tecnici e dirigenti del MiBACT in stretta collaborazione con volontari e enti locali. Le operazioni di verifica e recupero richiederanno del tempo, ma l’architettura e l’arte sono l’essenza della collettività che abita un determinato territorio e non per questo meno importanti di altri problemi dopo i sismi.