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L’AQUILA/2 A cinque anni dal sisma, una città sotto le macerie

di Flavia Testorio07 Aprile 2014
07 Aprile 2014

L'AquilaCome vi sembra L’Aquila oggi rispetto a cinque anni fa? “Sempre uguale”. È questa la risposta che si riceve ogni volta che viene fatta questa domanda. Sono passati cinque anni e il capoluogo abruzzese sembra rimasto intrappolato nella notte del 6 aprile 2009, quando un terremoto di magnitudo 6,3 ha distrutto 10mila edifici e ucciso 309 persone. Le finestre senza vetri si reggono a malapena, tubi di ferro e travi di legno sostengono gli usci ad arco delle case. Le porte dei palazzi, quelle poche che hanno resistito alle scosse, sono state socchiuse da una catena che lega insieme le maniglie. Alcuni pezzi di muro sono caduti lasciando, al loro posto, le spaccature da cui si intravedono i mattoni e i solchi sulle pareti degli edifici. Non saranno nemmeno dieci i negozi nuovi e ricostruiti che sono aperti nel centro storico. Non saranno state più di venti le persone che abbiamo visto camminare lungo quelle vie malconce. Un cantiere a cielo aperto fatto di transenne, impalcature, fiumi di sampietrini rotti e qualche gru: questa è la memoria storica che può vantare oggi il centro di L’Aquila.

In periferia sono nate le cosiddette “new-town”, zone residenziali in miniatura in cui vivono gli aquilani con le case inagibili da cinque anni. Sono 11.670 i cittadini che vivono nelle C.a.s.e. (Complessi antisismici sostenibili ecocompatibili) e 2.461 coloro che stanno nei M.a.p. (Moduli abitativi provvisori) ovvero i prefabbricati. In totale fanno 15 “new-town” sparpagliate nei sobborghi del capoluogo. Anche i negozi hanno abbandonato le vie del centro e si sono trasferiti lungo le grandi strade che portano fuori città. A vederle così assemblate non sembrano nemmeno abitazioni e i bar ricordano quelli delle piazzole di sosta ai bordi delle autostrade.

“Una zona rossa ovunque si trovi è questione nazionale” recita uno striscione multicolore affisso su un palazzo. È questo lo slogan con cui l’associazione Animammersa riunisce tutti i cartelloni – fatti a mo’ di collage di coloratissime stoffe – del progetto “mettiamoci una pezza”. Lo scopo non è di abbellire la città; è, piuttosto, quello di mandare un messaggio forte ai piani alti della sfera politica: ricordatevi di noi, di ciò che è successo qui a L’Aquila, ogni giorno e non solo il 6 aprile.

“Lo ripeterò fino alla morte: gli errori fatti a L’Aquila non debbono essere dimenticati”. A dirlo è Sergio Bianchi, di Frosinone, il presidente della Avus (associazione vittime universitarie del sisma). Suo figlio Nicola è uno dei tredici studenti fuori sede che hanno perso la vita nel sisma.

Da quel 6 aprile 2009 ad oggi, come vede L’Aquila? “Io vedo L’Aquila sempre allo stesso modo – ha risposto – come la città che mi ha portato via un figlio, una città nella quale lui riponeva tante speranze e in cui pensava di avere un futuro. Invece, purtroppo, è stata il suo punto d’arrivo”. Sergio Bianchi non accusa il destino per ciò che è successo, dà la colpa a coloro che non hanno fatto il loro lavoro responsabilmente. “La non trasparenza e la non comunicazione – ha proseguito – hanno strappato a noi i nostri figli, ma ai nostri figli è stato strappato il futuro”.

Ciò che resta de “La casa dello studente” è una voragine nel terreno sul ciglio della strada, tra un edificio pericolante e l’altro, in una piazza che porta il nome di quella notte “6 aprile 2009”. Appese alla transenna verde scuro ci sono ancora le fotografie degli otto studenti (gli “angeli”, così li chiamano), i fiori, i pensieri delle mamme, le magliette degli eventi che nel corso degli anni sono stati loro dedicati e una giustizia che ancora attende di compiersi. “L’Aquila rinasce”, la scritta rossa di un altro striscione del centro storico, per ora, resta una speranza e un forte grido di protesta contro tante promesse disattese.

Flavia Testorio

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