Si sente ancora il tintinnio delle chiavi tra le strade di Praga. Il simbolo della Rivoluzione di velluto, con cui i manifestanti cecoslovacchi avvisavano i sovietici che era tempo di andare a casa, è tornato in occasione del trentennale delle proteste del 1989. 200mila persone hanno invaso il Letna Park della capitale ceca e chiesto all’attuale premier, Andrej Babis, di dimettersi. Accusato di conflitto di interessi tra la sua carica istituzionale e quella di titolare della Agrofert – una holding agro-alimentare che opera nelle costruzioni, nella chimica, nella distribuzione, nell’industria del legname e che controlla parte dei mass-media – il magnate ceco con un passato da comunista (ex agente dell’Stb, la famigerata polizia sovietica) è stato aspramente criticato dalla piazza.
Se oggi si ha la possibilità di manifestare, è anche grazie alle libertà conquistate trent’anni fa durante il periodo della Rivoluzione di velluto, raccontato attraverso immagini e video nella mostra ospitata al Museo di Roma in Trastevere fino al 24 novembre. Libertà che nel 1989 non c’erano. “Durante il socialismo non si poteva scendere in piazza, era vietato. Avevamo paura che venissero i carrarmati come nel ’68”, racconta Helena Schwarzova, donna che ha vissuto in primo piano le proteste di quegli anni e il periodo del regime totalitario russo, che limitava di molto le possibilità dei cittadini. “Non si poteva viaggiare, le vacanze erano ammesse solo nel blocco socialista. Non si poteva leggere quello che si voleva, ma solo quello che era autorizzato dal governo. E in teatro non si potevano mettere in scena opere contrarie al socialismo. Il governo comunista non ci faceva respirare”.
L’esasperato egalitarismo, che puniva gli stipendi degli intellettuali, aveva svuotato le università a tal punto che la Cecoslovacchia contendeva all’Albania il record del minore numero di studenti universitari in Europa. E nella graduatoria delle spese dedicate all’educazione era finita al 27esimo posto nel mondo. La crisi dei servizi e della produttività era sintetizzata in due cifre: due terzi degli appartamenti appena costruiti erano difettosi e 280.000 persone attendevano il telefono da almeno un decennio.
Del profondo malessere economico, politico e sociale che cominciò ad attraversare il paese erano espressione i gruppi di dissidenti, che continuavano a sorgere e a moltiplicarsi. Il primo e il più importante era Charta 77, tra cui c’era anche lo scrittore Václav Havel, che diventerà poi presidente della Repubblica. Sulla scia del fermento dell’Autunno delle Nazioni, l’ondata rivoluzionaria avvenuta nell’Europa Centrale ed Orientale nel 1989, il movimento iniziò a organizzare le proteste, tra cui quella più numerosa del 17 novembre.
“Quel giorno il governo autorizzò la manifestazione perché ricorreva il 50esimo anniversario della chiusura delle scuole da parte del fascismo, in cui erano stati uccisi alcuni studenti”. A migliaia invasero le piazze. “Eravamo tantissimi. Molti studenti, ma anche tante famiglie con bambini, perché era una manifestazione autorizzata”. Uscita dall’Università, Helena si dirige con un’amica verso il cuore dalla protesta, trovandosi davanti una situazione che non si aspettava. “Dai megafoni si sentiva ‘studenti, lottate per la libertà!’, la gente si affacciava dai balconi e ci diceva ‘andate giovani!’, dal Teatro nazionale gli attori ci salutavano. C’era euforia nell’aria. Era bello”. Uno spettacolo di proporzioni enormi. “Sono salita su una panchina, ho guardato avanti e indietro, ma non vedevo finire le persone. C’era gente ovunque”. Faceva molto freddo quel giorno, ma la città era illuminata. “A ognuno era stato detto di portare candele e fiori come simbolo della protesta. Quando tutte quelle persone presenti accesero le candele accese, lo spettacolo fu indescrivibile”. Una Rivoluzione “gentile”, senza violenza, di velluto. “Era una manifestazione pacifica. Si sentiva la voglia di libertà”. E così Helena e gli altri manifestanti hanno proseguito il percorso, superando quello autorizzato. “Quando siamo arrivati al centro di Praga, ci hanno proibito di andare oltre. Tutta la gente si è allora ammassata vicino alla polizia. Non si capiva cosa succedesse. Gli agenti hanno poi incominciato a bloccare le strade. In via Narodni si sono messi con gli scudi, allora gli studenti hanno incominciato a poggiare le candele e a cantare l’inno nazionale”.
Ma la situazione precipitò velocemente, con i poliziotti che iniziarono a respingere i manifestanti. “Ognuno cercava di scappare, ma non ci facevano passare. Io mi sono rifugiata con una mia amica in un pub, alcuni vennero accolti dai proprietari delle case. Abbiamo dovuto anche levare le candele, perché erano un segno di riconoscimento”. Il 17 novembre circa 50.000 persone furono caricate dalla polizia in tenuta antisommossa, che malmenò e arrestò centinaia di manifestanti.
Il movimento però era iniziato. Da allora, ogni giorno Piazza Venceslao era piena di persone. E i teatri furono un luogo fondamentale per le proteste. “Erano aperti tutte le sere e si parlava”, ricorda ancora Helena. “Gli attori, con la loro capacità oratoria, andavano a parlare con le persone”. Il picco delle manifestazioni venne raggiunto il 27 novembre con lo sciopero generale a cui parteciparono circa sette milioni di persone (aderì il 75% dei lavoratori) e durò due ore, per ridurre al minimo i danni economici.
I sovietici erano alle corde e il Comitato Centrale lasciò il governo, mentre il Paese venne abbandonato solo nel 1991, con il ritiro delle truppe. L’11 dicembre vennero nominati alla carica di presidente del parlamento Alexander Dubček e a quella di presidente della repubblica Vaclav Havel, capo della rivoluzione. “L’amore e la verità”, pronunciate da Havel nei suoi discorsi durante le proteste, avevano finalmente prevalso “sull’odio e la menzogna”.
Il percorso espositivo della mostra “1989.Rivoluzione di velluto”, curato dalla fotografa Dana Kyndrová, permette di ripercorrere quei giorni con immagini, video e parole. Come quelle di Peter Zajac, uno dei partecipanti principali del novembre ’89, rimaste impresse nelle persone che vissero quegli anni e che continuano a far riflettere le generazioni future. “Una nazione senza memoria ripeterà nel futuro tutti gli errori che non ha ricordato”.