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La ricchezza maledetta del Congo

di Chiara Di Benedetto14 Febbraio 2025
14 Febbraio 2025

Un miliziano del gruppo M23 davanti a due soldati delle Nazioni Unite al confine con il Ruanda | Foto Ansa

La regione del Nord-Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo, nasconde i più grandi depositi di coltan e di cobalto del mondo. Per comprendere l’importanza di questa ricchezza, basti ricordare che tutti gli smartphone e i computer, cui ormai sono inestricabilmente legate le nostre vite, funzionano grazie a condensatori fabbricati proprio per mezzo della lavorazione di questi minerali. Nelle cave del Kivu cobalto e coltan, macchiati del sangue dei minatori-schiavi che li estraggono, vengono prelevati dalle bande armate con la forza e senza che l’esercito congolese sia in grado di reagire. In aprile, un gruppo di miliziani conosciuto come “Movimento 23 marzo”, M23, ha preso il controllo del comune di Rubaya, nella regione dei Grandi Laghi, dove si trova la più ricca miniera di coltan. Da allora, tonnellate di minerali vengono esportate illegalmente verso il Ruanda, per poi essere vendute all’estero e finire negli apparecchi che utilizziamo ogni giorno.

Il 27 gennaio 2025 i ribelli hanno preso Goma, la città più importante del Kivu. La regione orientale della Rdc è da sempre un luogo instabile, che costantemente torna a essere teatro di violenti scontri. Nonostante lo scorso 4 febbraio l’M23 abbia annunciato il cessate il fuoco, la tensione che da decenni divora il Paese non sembra avere fine: il 6 gennaio i ribelli hanno spostato i combattimenti nel sud e questa volta sembrano puntare direttamente a Kinshasa. “Libereremo tutto il Congo” hanno gridato i miliziani durante il loro primo comizio nello stadio di Goma.

I ribelli dell’M23

“L’M23 è un po’ la Wagner ruandese”, spiega il professor Giacomo Macola, docente di Storia e istituzioni dell’Africa alla Sapienza di Roma. Questo perché la banda armata si presenta come un gruppo paramilitare composto in parte da soldati congolesi di etnia Tutsi, ma in realtà è controllato da Kigali (la capitale del Ruanda). La storia dell’M23 è legata al genocidio in Ruanda del 1994, che ha portato un grande afflusso di rifugiati Tutsi nelle regioni orientali della Rdc. Il movimento venne fondato da ex membri del Congresso nazionale per la difesa del popolo (Cndp), un gruppo di ribelli che professava la difesa dei diritti delle minoranze congolesi. Il 23 marzo 2009 il Cndp siglò un accordo di pace con il governo di Kinshasa che si impegnò a integrare i Tutsi nell’esercito e nell’amministrazione congolesi. Nel 2012 però, quando alcuni ex miliziani del Cndp percepirono che le promesse di quell’accordo non erano state mantenute, imbracciarono di nuovo le armi e fondarono l’M23. 

Nel corso di quell’anno riuscirono a prendere Goma ma vennero poi costretti a ritirarsi dall’apertura di negoziati con le autorità congolesi. Dal 2021 il gruppo ha ripreso l’avanzata nel Nord-Kivu fino all’escalation dello scorso gennaio, che ha causato più di tremila morti e centinaia di migliaia di sfollati.

I soldati dell’M23 a Goma scortano il leader dell’Alliance Fleuve Congo (Afc), Corneille Nangaa, e il loro presidente, Bertrand Bisimwa

Il Ruanda e l’inadeguatezza dell’esercito congolese

Nonostante il Ruanda neghi di appoggiare l’M23, secondo un rapporto dell’Onu pubblicato a dicembre 2024, i soldati ruandesi al fianco dei ribelli sarebbero circa quattromila. Formalmente, l’obiettivo dell’M23 e del Ruanda è combattere le discriminazioni locali contro i ruandofoni e fare piazza pulita degli estremisti Hutu ancora in circolazione. Secondo Macola, i motivi addotti dal Ruanda per il suo interventismo sono, però, sempre meno credibili: “Sono passati trent’anni, è una giustificazione che non sta più in piedi. Ormai si ipotizza che ci siano ragioni prettamente economiche, un rinnovato interesse per i depositi minerari”. L’esercito congolese, spiega lo storico, “si rivela sempre disperatamente impreparato” perché formato da “un’accozzaglia di bande semi indipendenti nate dal tentativo di incorporare milizie preesistenti che hanno mantenuto catene di comando parallele”. I ruandesi quindi entrano nel Kivu e prendono quello che vogliono sotto gli occhi dei soldati congolesi.

La Cina, l’Europa e il coltan

Gli stessi minerali che i ruandesi prelevano con la forza finiscono, però, anche nelle nostre tasche. Macola spiega il percorso che compiono: “I minatori artigiani, vessati dalle bande armate e dall’esercito regolare congolese, estraggono i minerali, di cui i militari prendono una parte. A Goma vengono poi acquistati da imprenditori locali, spesso Tutsi, i quali si incaricano di far pervenire il minerale grezzo in Ruanda o in Uganda. Da lì il minerale viene convogliato verso il sud-est asiatico, in Cina e in Thailandia”. Anche l’Europa, con il memorandum d’intesa con il Ruanda, siglato il 19 febbraio 2024, si è assicurata una parte nell’approvvigionamento di questi minerali, anche se prelevati dalle mani di bambini e uomini pagati pochi centesimi. Lo stesso vale per gli Stati Uniti: nel 2019 un gruppo di avvocati americani ha presentato una denuncia contro Apple, Dell, Microsoft e Tesla per complicità nella morte di bambini nelle miniere congolesi, denuncia che però è stata archiviata nel 2024.

Una nuova crisi umanitaria

Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia: “C’è il rischio di un’ennesima crisi umanitaria, con le persone che o si rifugiano più all’interno del paese o scappano dall’altra parte del confine, in Ruanda”. Per Noury la situazione è complicata dal fatto che la popolazione ai due lati del confine è mista e condivide molto: “Le etnie e la lingua coincidono. C’è il rischio che diventi una guerra che coinvolge due o più stati”. Per questo il portavoce di Amnesty ha definito l’area “una sorta di Donbass dimenticato”. Secondo l’attivista congolese John Mpaliza, il mondo sta assistendo a una violazione dei diritti internazionali: “Da una parte abbiamo un paese occupato, il Congo, dall’altra un invasore, il Ruanda. Bisogna far tacere le armi”.

Gli abitanti di Goma in fuga dai combattimenti

Padre Marcelo Oliveira, missionario a Goma, in un messaggio inviato ad Aiuto alla Chiesa che Soffre (Acs), ha fatto sapere che l’aeroporto della città è chiuso e che la torre di controllo è stata vandalizzata: “Supponiamo che ci siano ancora ordigni inesplosi, bisognerà verificare se sia possibile riaprirlo, poiché è l’unico mezzo per far arrivare gli aiuti umanitari”.

Il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha avvertito del rischio di una nuova escalation, chiedendo la riapertura dell’aeroporto. Durante il vertice regionale sulla crisi tenutosi in Tanzania l’8 febbraio, i leader dei paesi africani hanno invocato il cessate il fuoco. Nel frattempo, la conta dei morti continua a salire, e la gente di Goma non sa più dove seppellire i corpi.

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