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"La mancanza di empatia
è colpa del sistema
la donna diventa un numero"

Il racconto di un’ostetrica a Lumsanews

"Si abusa della medicina difensiva "

di Beatrice D'Ascenzi25 Settembre 2023
25 Settembre 2023

Foto by Pixabay

Flavia (nome di fantasia) è un’ostetrica romana con molti anni di esperienza. Nella sua intervista a Lumsanews ha raccontato come i ritmi delle strutture ospedaliere possano deumanizzare l’esperienza del parto, sottolineando anche le difficoltà della sua categoria.

Nel corso della sua carriera ha mai assistito a episodi di violenza ostetrica?

“No. Mi è capitato di assistere raramente a un atteggiamento più aggressivo da parte del medico, però violenza ostetrica nel modo in cui spesso viene descritta no, non l’ho mai vista. Molto spesso quello che avviene in sala parto è vissuto diversamente dalla paziente rispetto all’operatore perché il punto di vista cambia. Come cambia il grado di partecipazione. Noi a volte abbiamo l’esigenza di sbrigare una situazione per salvare la vita della paziente e del bambino e capita di avere a che fare con una paziente che non è collaborativa, oppure è nel panico o vive una situazione in cui si sente a disagio perché il dolore forte e quindi noi agiamo in una maniera che può sembrare più brutale e questa cosa spesso viene fraintesa”. 

In generale pensa che i ritmi di un ospedale siano in grado di garantire un parto seguito e positivo per le pazienti?  

“Su questo purtroppo devo dire che a Roma sono state chiuse tante strutture che garantivano una certa qualità di assistenza. Erano realtà nelle quali veniva assistito un numero minore di parti rispetto ai grandi agglomerati ospedalieri e questo ha penalizzato moltissimo le pazienti”. 

E quindi secondo lei è azzardato dire che i ritmi del lavoro comportano una desensibilizzazione da parte del personale medico? 

“No, non è azzardato. Purtroppo diventi un numero. Ma non è colpa nostra, è colpa del sistema nel quale siamo inseriti. Un sistema in cui è difficile lavorare perché più alto è il numero di parti, più alti sono i rischi e minore è la sensibilità dell’operatore, ma per ovvi motivi. C’è carenza di personale rispetto a quello che dovrebbe essere il numero ottimale per una assistenza migliore per la paziente”. 

A questo proposito, voi avete mai seguito corsi di aggiornamento o seminari sui temi della violenza ostetrica interni agli ospedali? 

“No, interni agli ospedali no. Non mi sono capitati, ma corsi di aggiornamento che facciamo noi personalmente si”.  

L’Oms ha chiesto che i cesarei non superino la soglia del 15%, però in Italia sfiorano quasi il 32% . Come mai  nel nostro Paese se ne fanno così tanti?

“A mio parere questo è dato non solo dal non rispetto dei protocolli, ma anche dalla cosiddetta medicina difensiva, che spinge l’operatore a non oltrepassare quel confine di rischio che potrebbe comportare una denuncia. Per questo spesso il ginecologo decide di praticare un cesareo, anticipando così un’azione medica che potrebbe essere evitata, se non temesse le complicanze di un parto naturale. Almeno in Italia. Ovviamente poi questo varia da regione a regione. Nella struttura dove lavoro io ci adoperiamo molto affinché questo numero sia contenuto ma non è sempre possibile”.

Una delle pratiche più contestate è quella dell’episiotomia, secondo tante donne praticata senza un consenso informato. In cosa consiste questa pratica e soprattutto come avviene la comunicazione con la partoriente per questo tipo di operazione?

“L’episiotomia è un taglio che può essere fatto sul perineo durante le ultime spinte che la mamma fa prima di partorire, all’apice di una contrazione. Viene effettuato solo se l’ostetrica lo ritiene necessario, ad esempio se il battito del bambino sta calando e si deve velocizzare il parto o nel parto operativo ovvero quando il parto non è più spontaneo ma aiutato da un dispositivo. Personalmente nel momento del travaglio dico sempre alla donna che ci può essere la possibilità che io faccia un taglio e argomento con loro questa scelta quando sono ancora lucide per capire. Se ho la condizione glielo dico anche due secondi prima di effettuarlo se ho davanti una donna collaborativa e comprensiva. Altrimenti lo faccio e basta se ritengo che sia necessario. Per quanto riguarda però il discorso del consenso, se la donna leggesse il foglio che firma al momento del ricovero, come noi spesso le diciamo, saprebbe che è un’evenienza contemplata, perché nel foglio che ha firmato viene scritto che l’operatore è giustificato ad effettuare qualsiasi operazione chirurgica per portare a buon fine l’esito del parto. 

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