La giornalista Lucia Goracci a lungo ha ricoperto a lungo il ruolo di inviata in Medio Oriente e in America Latina per la Rai. Ha svolto la sua attività di reporter sul territorio siriano e iracheno. Tra gli eventi di spicco, ha seguito le elezioni presidenziali in Iran, le proteste in Brasile, in Egitto e a Gaza. È stata inviata a Kabul dopo la presa di potere dei talebani. Tutt’ora alterna il lavoro in studio a quello di reporter all’estero.
Lei ci ha raccontato il Medio Oriente per anni. Che cosa sta succedendo in Iran, da settembre ad oggi, dalla sua prospettiva?
“È come se il mio racconto dell’Iran di questi ultimi anni sia stato un prologo, i prodromi di quello che sta accadendo. Io sono stata lì per 16 anni. Sono arrivata la prima volta nel 2006. In Iran si è rotto il patto sociale tra il potere e il popolo”.
In che senso?
“Nel senso che fino a non poco tempo fa la ribellione aveva preso le vie dell’antagonismo politico e partitico. Fino alle proteste del 2009, in piazza scendeva l’opposizione riformista. Nel giugno 2009 Ahmadinejad, leader del partito conservatore, si è candidato per un secondo mandato e Mir-Hossein Mousavi, il leader dell’opposizione riformista, gli si è candidato contro. Insomma, il popolo pensava che l’ala riformista, al ballottaggio, avrebbe vinto. Non è andata così e la piazza è esplosa. Adesso non è avvenuto questo”.
Che cosa sta succedendo adesso?
“Adesso il movimento sta contestando il regime in quanto tale. Chi scende in piazza, non pensa più al potere o ai voti truccati com’è avvenuto nel 2009. La maggioranza crede che non ci sia alcuna speranza di riforma dall’interno. Insomma, il popolo vorrebbe la caduta del regime”.
I giovani che ruolo hanno avuto?
“Fondamentale. Non è un caso che tutto sia stato scatenato dalla morte di una giovane. Mahsa Amini era una donna proveniente da una famiglia curda della provincia di Saqqez. Non apparteneva nemmeno all’Iran ricco. Tutti si sono identificati in lei. Non c’è stato iraniano o iraniana che non abbia proiettato su Mahsa Amini una figlia, una sorella o una ragazza. È su questo punto che si spiega il fatto che in queste proteste non sono coinvolte solamente le giovani donne, ma anche i mariti, i padri e gli uomini”.
Quali sono gli ideali che spingono alle mobilitazioni?
“La canzone Baraye di Shervin Hajipour sintetizza tutti i desideri venuti dalla rete e che stanno al centro della mobilitazione giovanile iraniana. Per poter ballare per strada, per il timore di un bacio, per l’aria inquinata, per gli studenti e il futuro. Per i bambini afghani, per la vergogna di essere povero e per le donne, la vita e la libertà. Questi sono i temi alla base di tutte le mobilitazioni”.
Secondo lei, gli iraniani sono arrivati a un punto di non ritorno?
“Sì. Il punto di svolta è stato l’abbattimento del volo ucraino nel gennaio 2020, quando i Pasdaran, i volontari del Corpo delle guardie della rivoluzione islamica, hanno colpito con un missile un aereo civile ucraino. In questo volo sono morti tantissimi giovani iraniani che studiavano in Canada. I pasdaran negarono per tre giorni e non vollero ammettere di averlo abbattuto loro. La società rimase sconvolta perché non solo il Paese non garantiva un futuro ai figli, ma adesso li ammazzava. Ecco questo è stato un punto veramente di rottura definitiva tra i giovani e il regime”.
Sui casi di avvelenamento che si stanno registrando da novembre a questa parte, cosa pensa?
“Non credo, non penso e non ho elementi per dire che ci sia un ordine del regime per avvelenare con intento punitivo rispetto alle contestazioni. Staremo a vedere per quanto sarà possibile perché le ricostruzioni che danno le fonti ufficiali iraniane sono sempre da mettere in dubbio”.
Che ruolo riveste la cultura nella società iraniana?
“La cultura non è negoziabile. Non è mai stata messa in discussione da quando Khomeini ha fondato la Repubblica islamica, così come il velo. C’è stata una sorta di sacralizzazione del velo femminile, è uno dei capisaldi della Repubblica. Rimane un punto fondamentale”.
L’Occidente rappresenta un modello per l’Iran da cui trarre una nuova condizione sociale, ha influenzato le proteste?
“Devo dire che quest’ultima generazione è attratta più dal modello di vita che non dalle libertà occidentali. Una delle vittime di questa repressione, in un suo video, diceva una cosa molto indicativa. È vero, abbiamo visto e vediamo tutti i giorni la fame in Africa, ma vediamo anche come si divertono a Los Angeles. E noi vorremmo poter scegliere. La libertà come opzione di scelta. Loro sono stanchi di doversi nascondere per esprimere sé stessi. I giovani vogliono la libertà”.
Crede che ci possa essere un avvicinamento progressivo all’Occidente?
“C’è ancora da fare. Il valore della testimonianza di una donna è la metà di quella di un uomo, il diritto ereditario di una donna è la meta dell’uomo; quindi, sul piano dell’ordinamento giuridico, la donna è in estremo svantaggio. Io sono convinta che un paese con le potenzialità dell’Iran, possa portare anche in tempi ragionevolmente brevi alla conquista di pieni diritti per le donne”.
Perché ha sempre scelto di raccontare la guerra?
“In guerra ci sono sempre in gioco grandi cause. Ci sono grandi forme di violenza ma anche grandi forme di eroismo. Ciò che mi ha sempre colpita è la resistenza eroica delle popolazioni. Non si sceglie di essere eroe, ma lo si diventa inconsapevolmente. Ecco io ho scelto le guerre perché è molto appassionante. Nelle guerre si scopre l’umanità ai suoi estremi. L’estremamente violento, ma anche l’estremamente eroico. Ma soprattutto la guerra è complessità e mi ha sempre appassionato raccontare la complessità della realtà”.