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"La caduta del Muro
fu un atto simbolico
Berlino era militarizzata"

di Patrizio Ruviglioni31 Ottobre 2019
31 Ottobre 2019

BERLINO / GERMANIA - 10 NOVEMBRE 1989.CITTADINI DI BERLINO EST IN FILA DAVANTI AD UNA BANCA PER RITIRARE 100 DM CHE LE AUTORITA' DI BERLINO OVEST DAVANO IN REGALO AI CITTADINI DELLA DDR IN OCCASIONE DELLA PRIMA VISITA ALL'OVEST..FOTO LIVIO SENIGALLIESI..BERLIN / GERMANY - 10 NOVEMBER 1989.CITIZENS COMING FROM EAST BERLIN CROSSING THE CHECKPOINTS TO VISIT THE WEST PART OF THE TOWN. ALL THE PEOPLE WENT TO THE CLOSER BANK TO GET 100 DM AS A GIFT FROM THE WESTERN PART AUTHORITIES TO ALL DDR CITIZENS COMING FOR THE FIRST TIME IN THE WEST SIDE..PHOTO BY LIVIO SENIGALLIESI

«Quella sera non è finito un bel niente, non è stato riunificato nessun Paese». Livio Senigalliesi il 9 novembre del 1989 era a Berlino come fotoreporter. Viveva nell’Ovest, ma seguiva i cambiamenti dell’Est, e nella capitale tedesca sarebbe rimasto fino all’ottobre del 1990, quando la Germania fu effettivamente riunificata. Per questo sostiene che la caduta del Muro, a cui lui ha assistito, abbia avuto più un valore simbolico che altro, visto che per la libertà di circolazione dei cittadini si sarebbe dovuto attendere l’anno successivo.

In ogni caso, è stato testimone dei fatti: nelle sue parole e nei suoi scatti (esposti a Roma fino al 10 novembre, al Museo delle Mura) ci sono gli aneddoti e l’atmosfera di una Berlino divisa, di un’Europa a un punto di svolta, delle lacrime di un paese che si ritrova dopo quarant’anni.

Abbiamo ripercorso con lui l’esperienza di quei giorni in cui è finita la Guerra fredda e il volto del mondo è cambiato per sempre.

Come si è preparato per andare a Berlino?
«Ci sono voluti anni di studi per capire la Berlino dell’Est, non mi sono trovato lì da un giorno all’altro. Studiavo russo e tedesco e leggevo giornali internazionali per capire meglio la situazione, che in Italia veniva trattata superficialmente. Si percepiva che qualcosa si stava muovendo e che le politiche di Gorbaciov stavano portando davvero all’apertura della Cortina di ferro. Il suo discorso a Berlino Est, nell’ottobre del 1989, in cui dichiarò che era venuto il momento di consentire una maggiore libertà di movimento ai cittadini della DDR. La fuga di cittadini della DDR in Cecoslovacchia era un segno inequivocabile che la cortina di ferro si stava spezzando. In quel momento decisi di partire perché era il momento”.

Che città ha trovato al suo arrivo?
«Arrivai il primo novembre. Frequentai soprattutto zone della Berlino Ovest vicino al Muro, dove abitavo. Era un quartiere con tante dimore occupate, tanti alternativi, artisti, immigrati, e comunque molto emarginata. Vivere vicino al Muro era difficile: era una zona militarizzata, dove si sentiva il rombo degli aerei militari. In mezzo c’erano anche mine, esercito, cecchini, nidi di mitragliatrici. Era praticamente come vivere al confine di una zona di guerra. Per il resto, la città era esattamente divisa a metà, con due nuclei ben distinti. Lavoravo con un’interprete nata e cresciuta nell’Ovest: non aveva minimamente idea di cosa ci fosse nell’Est. Quando aveva studiato geografia a scuola, la Germania dell’Est era una zona ‘grigia’, di cui non si sapeva nulla e che non veniva neanche citata! La chiamavano ‘La zona’, la zona nemica. Lei una volta mi disse che non sapeva neanche che al di là del Muro ci fosse ‘un’altra’ Berlino!».

Però poi ha visitato Berlino Est.
«Sì, il due novembre mi sono recato al Ministero dell’Informazione per chiedere l’accredito giornalistico. Era un documento essenziale per il mio lavoro. Attraversai il famigerato Check-point Charlie. Mi hanno perquisito più volte, mi hanno fatto spogliare, mi controllavano tutto l’equipaggiamento fotografico, anche i rullini. I Vopos, le guardie di confine, avevano la “sindrome della spia venuta dall’Ovest”, facevano di tutto per rendere la vita più difficile a noi giornalisti. Una volta entrato nella zona Est, venivo spiato dagli agenti dalla Stasi, i servizi segreti della DDR. In attesa del visto, non potevo fare foto e mi era concesso di visitare la parte Est solo fino alle 17. Poi dovevo rientrare a Berlino Ovest. Avanti e indietro tutti i giorni, così fino al 9 novembre».

Che atmosfera c’era a Berlino Est?
«La città sembrava appena uscita dalla guerra: soldati dell’Armata rossa ovunque, macerie e palazzi non ricostruiti, il Reichstag ancora segnato dalle fiamme. E poi era buio, c’era un cielo plumbeo. L’architettura era di tipo socialista-sovietico, era pieno di caserme abitate soldati sovietici. Dopo qualche giorno mi hanno dato il visto: potevo finalmente circolare ‘liberamente’ per Berlino Est».

Livio Senigalliesi

Ma che notizie filtravano allora?
«A Lipsia nel frattempo ogni lunedì si svolgevano imponenti manifestazioni contro il regime: avevo il presagio che stava per accadere qualcosa. Ma nessuno sapeva con esattezza cosa: poteva crollare il comunismo come scoppiare una guerra in cui l’Armata Rossa avrebbe soppresso con la violenza ogni rivolta interna alla DDR, com’era già successo a Praga nel 1968».

Finché non è arrivato il 9 novembre.
«In realtà la sera del 9 novembre successe tutto e niente! In tarda serata ci fu la conferenza stampa del direttore della Stasi Erich Mielke e Guenter Schabowski, portavoce della Germania Est, comunicò che le restrizioni sui viaggi all’Ovest erano sospese. Alle richieste di precisazioni, Schabowski rispose: “Da subito!”. I giornalisti non badarono molto alle interpretazioni, e diramarono immediatamente la notizia. Ho sempre pensato che il via libera venisse direttamente da Mosca, e non fosse tutto così ‘casuale’. Fatto sta che la notizia bomba creò immediatamente il suo effetto: la gente dell’Est iniziò a spingere sui check-point e i soldati non ricevettero ordini di aprire il fuoco».

E da lì?
«Io nel frattempo ero tornato all’Ovest, dove nessuno sapeva ancora nulla. Verso le sei di mattina andai al Muro, dove trovai i primi berlinesi dell’Ovest. Dall’altro lato c’erano tanti berlinesi dell’Est. Le due popolazioni erano divise solo dai soldati di frontiera. Poi, all’alba del 10 novembre, si fecero da parte: la gente iniziò a venirsi incontro, ad abbracciarsi, a festeggiare, a piangere. La Guerra fredda stava finendo, sotto fiumi di lacrime e champagne».

Ma si capiva di essere agli sgoccioli dell’esperienza della DDR?
«Non del tutto, anzi: la gente era comunque intimorita, i festeggiamenti potevano essere sedati con le armi da un momento all’altro. E invece non successe niente».

Cosa resta, oggi, del 9 novembre?
«È stato un giorno simbolico, tant’è che il Muro non “cadde” per davvero. Era una barriera di settanta chilometri e sarebbe durata ancora un anno, mentre la gente della DDR restò ancora senza libertà di muoversi. Quella sera non è finito un bel niente, non è stato unificato nessun Paese. Oltre i varchi nel Muro, negli spazi dove si incontravano i berlinesi, c’erano cinquanta metri di autonomia. Non di più. Poi c’erano di nuovo gli eserciti, i controlli. La gente si incontrava, festeggiava e poi tornava a casa. Era stato aperto un varco, ma la strada era ancora lunga: il Muro c’era ancora, la DDR anche».

Quando si è arrivati a una svolta?
«Il 3 ottobre 1990, con una cerimonia con cui le forza armate occupanti si ritirarono da Berlino e lasciarono ai tedeschi la sovranità. Da lì si iniziarono a unificare davvero le due città: via le mine antiuomo, via le barriere, via le torrette; collegate le strade e le ferrovie, adottata una moneta unica. E sì: allora Berlino fu davvero unita, e anche la Germania. Finalmente ci fu libertà di circolazione per tutti».

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