Vivono specialmente a Kerch, gli Italiani di Crimea, a 200 chilometri da Simferopoli, in quella striscia di terra che rischia di essere invasa dall’esercito di Mosca. Oggi sono 500, ma c’è stato un periodo in cui erano oltre 5.000; moltissimi sono morti tra il 1937 e 1938; altri, dopo quattro anni hanno conosciuto la deportazione verso la Siberia. Era il 29 gennaio del 1942 quando la polizia sovietica costrinse gli italiani di Crimea ad imbarcarsi nel porto di Kerč: due navi dirette verso il Caucaso, poi verso i gulag staliniani dei Kazakhstan. L’inizio del viaggio e poco dopo la tragedia; una delle due barche affondò e quasi tutti i deportati italiani morirono. Per i sopravvissuti non fu comunque una vita facile. Perseguitati sotto il comunismo con l’accusa di essere fascisti e italiani, subirono feroci maltrattamenti: non solo espulsioni, ma anche rastrellamenti e deportazioni di massa verso i gulag del Kazakistan.
Il timore dell’invasione Russa. Siamo nel 1956, ed è proprio in questo momento che i sopravvissuti fondano la comunità di persone di origine italiana, Cerkio, (Comunità emigrati regione di Kerch italiani di origine), che oggi guarda con paura e apprensione i movimenti russi che fanno terrore e le proteste pro Mosca che agitano la città.
Grazie alla loro pagina Facebook seguita con costante attenzione siamo riusciti a contattarli e a farci raccontare in prima persona come stanno vivendo questo momento e se sognano di tornare definitivamente in Italia. Quell’Italia che loro portano nel cuore e che proprio in questo momento abbastanza delicato è vicina a tutti loro.
La testimonianza. Igor e Anna sono sposati e rappresentano una piccola parte dei tanti “italiani in “Crimea”. Igor è proprietario di un piccolo albergo e lavora presso l’associazione Italiana a Kerch, mentre Anna, 26 anni, lavora spesso come interprete o guida per i turisti in Crimea. Vivono in un clima di paura perché non sanno quale sarà il loro futuro e, in caso di guerra, hanno paura di essere abbandonati dall’Italia.
Quell’Italia che loro sentono nel sangue, dove hanno vissuto i loro nonni e che spesso visitano grazie agli incontri dell’associazione.
Poi ci sono i problemi economici di un’economia già fragile: i turisti sono sempre di meno, le prenotazioni inesistenti e quelle confermate, vengono disdette. Ma non solo, gli stipendi e le pensioni sono in ritardo e i prezzi dei generi di prima necessità sono già alle stelle: a volte, nei giorni di paura, c’è la corsa per il pane, per le candele, per i fiammiferi. Più o meno come ciò che accadeva nel 1987 nel periodo della “Perestrojika” (ricostruzione delle riforme economiche) quando non c’erano acqua, cibo, elettricità.
Per fortuna però esistono anche i sogni: uno dei tanti è quello di tornare in Italia. Studiano l’italiano e molto spesso s’informano sulla situazione generale del nostro paese; da due mesi però accantonata dai fatti di piazza Maidan.
Abbiamo dialogato con Anna: come mantenete viva l’identità italiana?
«Io mi sento italiana, il mio sangue mi parla dell’Italia e dei miei nonni. Mia nonna, che è ancora viva, non è mai tornata in Italia e questo la fa soffrire, io invece ci sono stata. E poi c’è la parte della cultura: la cucina, la lingua, gli incontri dell’associazione».
Dall’altra parte il marito, Igor Fedorov, teme che questa incertezza distrugga un’economia già fragile.
In che modo?
«Io lavoro nel turismo, sono amministratore di un piccolo albergo, le prenotazioni non esistono più, nessuno vuole venire in Crimea. Prima chiamavano dalla Russia, dalla Bielorussia, ora le uniche telefonate che ricevo sono per disdire. Siamo molto agitati, il lavoro è importantissimo».
Che ne pensi di quello che sta succedendo in Ucraina?
«Ora come ora non ho un giudizio chiaro perché sto aspettando di vedere quello che succede. Non so cosa sia più giusto o meno, io so solo che voglio la pace in Crimea.
Oggi comunque la situazione è tranquilla e i soldati russi stanno esclusivamente nelle nostre basi militari».
Un sospiro di sollievo. Oggi. Domani e il futuro non si sa. Ed è proprio quello che fa più paura.
Carlotta Dessì