“Avevo combattuto per sopravvivere per poi fare i conti con un’esistenza squallida. Alfredo e i libri mi hanno salvata”. Così la senatrice a vita Liliana Segre nell’intervista rilasciata a Simonetta Fiori per Repubblica. Passo dopo passo, con la chiarezza tipica di chi riesce a guardare i fatti da lontano, ripercorre la sua storia d’amore con Alfredo Belli Paci, conosciuto su una spiaggia dell’Adriatico nell’estate del 1948. L’amore di una vita, una storia di altri tempi.
“Pochi giorni dopo esserci conosciuti Alfredo notò il mio numero sul braccio. Io so cos’è, mi disse. E io so che tu hai sofferto molto. Mi ritrassi, non parlavo allora come non avrei parlato nei successivi quarant’anni. E lui mi raccontò di aver trascorso due anni in sette campi di prigionia nazisti. Alfredo Belli Paci era uno dei seicentomila militari internati in Germania”.
L’aver condiviso la stessa esperienza ha legato i due in modo indissolubile, anche se Alfredo avrebbe fatto per tutta la vita un passo indietro. “Anche lui aveva sofferto la fame e la paura, ma era come se la sua storia meritasse meno attenzione. Così fin da subito diede al mio racconto priorità”.
Poi la decisione di diventare una testimone pubblica del dramma dell’Olocausto ha preso piede nella mente della senatrice; ma all’inizio Alfredo non fu contento. “Temeva che l’esposizione mi avrebbe rinnovato il dolore. E temeva anche di perdere una sorta di esclusiva su di me. Ma io alla mia famiglia non chiesi consiglio: comunicai piuttosto una decisione”.
Una decisione sofferta, maturata nel tempo, di una donna – moglie e madre – che rintanatasi nell’abbraccio accogliente della famiglia aveva sfuggito il richiamo di un dovere morale. “Dentro di me cominciava a serpeggiare il dubbio di non aver fatto il mio dovere di testimone”.
Un dovere a cui Liliana Segre ha adempito con il supporto del marito, scomparso nel 2007, e che ha dato voce al bisogno di quella ragazzina che nel 1944 venne deportata ad Auschwitz, di raccontare la sua storia.