Storico, accademico e giornalista italiano, il docente universitario Giovanni Sabbatucci, uno dei più accreditati storici dell’epoca contemporanea e dell’Italia repubblicana, ci ha aiutato ad analizzare alcuni aspetti della complessa storia del Partito Comunista Italiano.
Il Pci da quel 21 gennaio 1921 è diventato tutt’altro: è rimasto fino all’ultimo un partito settario e bolscevico o si è semplicemente evoluto?
“C’è chi dice che il Partito comunista italiano sia rimasto sempre lo stesso nella sua storia. Più ci si allontana dal 1921, dal Congresso di Livorno, più mi sembra avere fondamento la tesi che sia diventato tutt’altro. Anche adesso che il Pci non c’è più, i suoi eredi sono tutt’altra cosa dai giovani rivoluzionari del Congresso di Livorno. La tesi mediana spiega poco, perché si limita a registrare il cambiamento”.
Alcune tesi revisioniste individuano Gramsci come precursore di un certo riformismo.
“No, Gramsci è un’eccezione, nel senso che è un pensatore politico di notevole spessore, che è molto diverso per cultura e formazione dal prototipo del rivoluzionario di professione. Ma la sua diversità non lo porta a diventare aedo della democrazia. Gramsci viene dalla cultura del primo Novecento e, solo in parte, ha una connotazione marxista. Lettore de “La Voce”, per alcuni aspetti è simile a Georges Sorel, per altri a Charles Péguy e agli intellettuali del suo tempo”.
Si può parlare, a proposito di Togliatti, di “doppiezza,” intesa come doppia appartenenza all’Italia democratica e al mondo comunista?
“Una certa doppiezza ci fu. Per un certo periodo non venne mai fuori un esplicito rifiuto di quello che fu il socialismo reale e del modello sottostante”.
Quale diventa lo scopo del Pci in Italia?
“Perpetuare e accrescere la macchina organizzativa del partito e la sua comunità. Il Pci diventa – usando una metafora – un ordine monastico-guerriero. Ciò che conta non sono le cose da fare, ma chi le fa. Non vuole fare la rivoluzione, ma fino alla svolta della Bolognina, questo rimane un non detto, che conoscono solo gli iniziati al di dentro, lasciando pensare, temere, sperare al di fuori, anche tra i semplici militanti, che ci possa essere anche l’esito rivoluzionario. Fino a quando questo esito non viene rinnegato esplicitamente, si può, a buon diritto, parlare di doppiezza”.
Insomma “il movimento è tutto, il fine è niente”?
“Più o meno, per uno strano paradosso la frase è del revisionista Eduard Bernstein”.
In cosa consiste la terza via di Berlinguer?
“Non è socialdemocrazia. Ma, stando a una metafora togliattiana, “è come la giraffa: strana, ma esiste”. Con la tendenza finale a uno sbocco democratico-progressista, senza connotazioni precise e contenuti forti”.