Marcello Sorgi è editorialista de La Stampa, quotidiano di cui è stato direttore dal 1998 al 2005. In precedenza ha guidato il Giornale Radio della Rai e il Tg1. Ha recentemente pubblicato il libro “Quando c’erano i comunisti” insieme a Mario Pendinelli. Ci ha aiutato a ripercorrere la storia del Partito Comunista, che compie cento anni.
Cosa resta del PCI oggi?
“Un folto gruppo di dirigenti che erano giovani all’epoca in cui il partito fu sciolto e che hanno attraversato trent’anni in cui la sinistra è stata al governo, quasi quanto la destra nella stagione del maggioritario. Uno di loro, Massimo D’Alema, già segretario del partito, è stato anche Presidente del Consiglio. Penso poi a Walter Veltroni e Piero Fassino, protagonisti della stagione di governo con tanti limiti, ma anche scelte azzeccate”.
Gramsci ha rappresentato una figura apicale.
“Era un “primus inter pares” e un cervello geniale, capace di trattare faccia a faccia con Lenin, un personaggio assolutamente speciale. Nel 1919 fondò il giornale “Ordine Nuovo” insieme a Togliatti, Tasca e Terracini. I quattro, tutti di origini torinesi, avevano vissuto la nascita e la crescita della grande fabbrica della Fiat e di tutto quello che gli stava attorno. Quindi avevano subito capito che l’idea di una rivoluzione contro i capitalisti in Italia sarebbe stata sbagliata”.
I Comunisti parteciparono alla stesura della Costituzione.
“Mosca rimanda Togliatti in Italia nel 1944 e lui fonda il “Partito nuovo”, che continua a chiamarsi comunista ma riconosce pienamente i valori della democrazia e partecipa in Italia al processo costituente come uno dei principali attori. Nel 1947 De Gasperi, in accordo con gli americani, butterà fuori i comunisti dal governo. Comincia un lungo periodo di opposizione, che durerà fino alla fine della storia del Partito. Togliatti comunque, insieme alla Dc, ai socialisti, ai repubblicani e ai liberali, reintrodusse la democrazia in Italia dopo più di vent’anni di dittatura fascista, con un documento come la Costituzione italiana, rimasta invariata dal 1948 a oggi, resistendo a quasi tutti i tentativi di cambiamento”.
La rivoluzione è sempre rimasta soltanto sulla carta…
“Nel 1948 alle elezioni politiche c’è una grande vittoria della Democrazia Cristiana e una sconfitta delle forze socialiste e comuniste: lì ricomincia la storia della sinistra italiana, che sarà comunque sempre fondata sul riconoscimento della democrazia. A mio avviso il Partito Comunista non nasce rivoluzionario ma democratico. La declinazione delle parole d’ordine rivoluzionarie è puramente propagandistica ma né Gramsci, né Togliatti, né Longo, né Berlinguer hanno mai pensato seriamente di fare la rivoluzione in Italia. Tanto che nel 1968 quando nasce il movimento studentesco l’avversario più duro tutte le pulsioni rivoluzionarie è proprio il Partito Comunista Italiano”.
Che rapporto aveva il Pci con l’Urss?
“L’Unione Sovietica sarà uno dei principali finanziatori del partito, una contraddizione del Partito Comunista che predicava la democrazia, ma prendeva i soldi da Mosca per svolgere le sue attività. In quei primi anni di Guerra fredda anche la Democrazia Cristiana e i suoi principali ricevevano aiuti dall’America, ma ciò avveniva all’interno di un’alleanza internazionale come il Patto Atlantico. Nel 1956 Togliatti appoggerà l’invasione sovietica dell’Ungheria, provocando un forte dibattito interno e l’uscita di oltre cento intellettuali. Alla sua morte lascia il famoso “Memoriale di Yalta”, in cui rivendica la possibilità di una via italiana al socialismo, sempre democratica e mai rivoluzionaria. Nel 1968, quando ci sarà l’invasione della Cecoslovacchia, nasce un processo di affrancamento dall’Urss, lento ma costante. Nel 1975, nell’intervento al congresso, l’erede Berlinguer dirà che la democrazia è un valore incontestabile, fra i mugugni di una sala in cui erano riuniti i satrapi di tutti i partiti comunisti del mondo”.
Cosa accade dopo lo scioglimento del partito, nel 1991?
“Ci sarà una scissione tra il Pds e Rifondazione Comunista. Ma il partito era finito prima, dopo la morte di Berlinguer, probabilmente il più grande segretario che il PCI ha avuto. Già all’epoca si aprì una discussione sull’opportunità di continuare o meno a chiamarsi comunisti, che non verrà tacitata come quando Amendola nel 1964 proponeva di unirsi con i socialisti per fare un unico partito di sinistra. Berlinguer voleva reinventare la prospettiva del Comunismo, riformandolo in Italia e in Europa con radici e una condotta democratica, senza alcun riferimento diretto alla vicenda sovietica. Questo fu il suo sforzo ma anche il suo limite”.
Era comunque una corsa contro il tempo persa in partenza…
“La lentezza li condannerà a un ruolo marginale: Berlinguer muore nel 1984, Natta rimane segretario fino al 1988 e Occhetto, il vero successore, proclamerà la fine del Partito Comunista dopo la caduta del muro di Berlino. Il Pci nella sua storia ha sempre rincorso un treno che non è riuscito a prendere, non aderendo fino in fondo ai valori della democrazia: una lentezza imperdonabile. L’unico tentativo fu negli anni del terrorismo e del “compromesso storico”, una strategia nata dopo il colpo di Stato in Cile, sul filo dell’emergenza economica e di sicurezza in Italia. Ma la Democrazia Cristiana non accettò mai che ci fossero dei ministri comunisti. E la morte di Moro, nel 1978, chiuse la fase di avvicinamento tra i comunisti e i democristiani”.