Maria Rosaria Raspanti è un’avvocatessa che si occupa di diritto antitrust e regolatorio. Ha chiarito alla nostra redazione le implicazioni che la pratica del greenwashing da parte delle aziende ha sui consumatori.
Com’è inquadrata la pratica del greenwashing a livello giuridico?
Si qualifica, a certe condizioni, come pratica commerciale scorretta. La progressiva analisi dei contenuti da parte delle autorità della concorrenza, che tutelano i consumatori, ha individuato alcune caratteristiche che rendono l’utilizzo di questa attività promozionale idonea a dar luogo a fattispecie di pubblicità ingannevole.
C’è una norma che tutela i consumatori dalle sponsorizzazioni ingannevoli?
In Italia il Codice del consumo costituisce il quadro normativo di riferimento quando si guarda al fenomeno del greenwashing dalla prospettiva della tutela del consumatore. Anche nella prassi applicativa dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che applica tutte le norme correlate, è inquadrabile nell’ambito delle pratiche commerciali ingannevoli, idonee appunto a indurre in errore il consumatore medio, falsandone il processo decisionale, che è poi quanto avviene nei casi illeciti in cui il consumatore ritiene erroneamente che il prodotto abbia un considerevole profilo di sostenibilità, mentre invece così non è, e non è comunque possibile capire perché lo sia, trovandosi quindi di fronte a un messaggio promozionale sostanzialmente basato sulla disinformazione ma che sfrutta una leva – quella della sostenibilità – capace sempre più di incentivare il consumatore medio all’acquisto. Il greenwashing può assumere varie forme, passando dalla promozione di un prodotto in maniera vaga e generica, attraverso messaggi promozionali che difficilmente consentono di valutarne consapevolmente la sostenibilità, per giungere alla esasperazione dei profili green dei beni pubblicizzati.
Il greenwashing può rappresentare anche una concorrenza sleale?
Questa fattispecie di illecito, di natura civile, deve comunque rispondere a canoni stabiliti in maniera abbastanza precisa e ormai consolidata tra disciplina codicistica e giurisprudenza. Non è inusuale che pratiche apparentemente sleali non siano poi qualificate come tali ad un esame più attento delle circostanze del caso concreto, che è comunque sempre necessario. Astrattamente le pratiche di greenwashing, oltre a rilevare come illecito consumieristico, potrebbero qualificarsi anche come atti di concorrenza sleale, nella misura in cui vi siano gli elementi per stabilire che la pratica posta in essere costituisca un mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare i competitor. L’azienda che pone in essere una pratica di greenwashing tenta di incrementare la propria quota di mercato senza accollarsi i costi della produzione sostenibile e della sua fondata promozione, sfruttando gratuitamente il generale favor esistente per i prodotti sostenibili che altre aziende hanno negli anni contribuito a costruire, sopportandone i relativi costi a livello produttivo e informativo. Tanto le aziende che sostengono il costo economico di uno sforzo sostenibile, quanto quelle che non optano per la scelta green ma con coerenza non promuovono qualità inesistenti, possono essere danneggiate, a livello concorrenziale, da campagne promozionali ingannevoli incentrate sulla discutibile sostenibilità dei prodotti, essendo esposte all’erosione della propria market share per effetto di pratiche di aggressione del mercato a costo zero o comunque ridotto.